Nella seconda metà del ’900 si è
formata in Giappone una pratica di culto del tutto nuova, il Mizuko Kuyō
(水子 供養), per placare gli spiriti dei bambini abortiti.
Nell’epoca
Tokugawa (1603-1867), non esistevano forme di culto per le anime dei
bambini morti. L’infanticidio era una pratica diffusa: nei villaggi,
dove la miseria era più grande, il bambino indesiderato veniva soppresso
dopo il parto, poi il suo spirito era dimenticato.
Per lui non si
svolgevano riti funebri: la mamma lo affidava al bodhisattva Jizo,
perchè lo facesse presto rinascere in una nuova e migliore esistenza.
Dopo la Restaurazione Meiji (1868-1912), il modello di una famiglia prolifica era esaltato dalla propaganda del regime.
Dalla fine dell’800, cominciò a essere inculcato l'ideale della “buona
moglie e saggia madre”, in cui la maternità era un’esperienza di
altissimo valore morale che rivelava la “vera” natura della donna e che
esaltava la sua lealtà verso l’Imperatore.
La società giapponese
della prima metà del ’900 si dimostrò molto efficace nel reprimere
l’aborto, condannato non solo moralmente, ma anche ideologicamente, come
un tradimento verso la nazione.
Leggi che proibivano l’interruzione
della maternità furono promulgate subito dopo l’inizio dell’era Meiji;
gradualmente furono varati dei provvidimenti sempre più restrittivi
contro l’aborto e l’infanticidio fino ad arrivare a proibire qualunque
mezzo di controllo delle nascite.
Anche il discorso religioso fu
manipolato per legittimare i nuovi paradigmi etici imposti alla donna e
in questa chiave fu rielaborata la figura del bodhisattva Jizo,
considerato in Giappone come il salvatore più vicino a tutti coloro che
soffrono.
Agli inizi del secolo XVIII, Jizo appare anche come
consolazione e guida ultraterrena delle anime dei morti, in particolare
dei bambini.
Ricordando questa funzione salvifica, nelle campagne si
usava mettere le sue statue lungo le strade e ai crocicchi. La gente,
per associazione simbolica, finì per abbinare la figura del bodhisattva
con quella di Dosojin, il dio dei crocicchi, divinità fallica della
buona sorte e della fertilità.
Alcuni studiosi, influenzati
dall’ideologia nazionalista dell’epoca Meiji, evidenziarono oltre misura
questa analogia, fino a sostenere che essa rivelava la vera natura del
bodhisattva che in realtà era, secondo loro, il protettore della
fertilità e della vita: così quel Jizo compassionevole verso il dolore
della madre che aveva abortito e dello spirito mai nato, fu trasformato
in un Jizo che benediceva la vita e donava la fertilità e che piangeva a
causa della morte dei feti.
Questa manipolazione dell’immaginario
sacro tradizionale diventò parte della strategia ideologica tesa a
scoraggiare la pratica dell’aborto e segnò l’instaurarsi di un nuovo
discorso religioso mirato a colpevolizzare la donna: gli oppositori
dell’aborto aggravavano il senso di colpa proclamando con molta enfasi
che interrompere la maternità era una azione nefasta che offendeva gli
dei, che avevano dato agli uomini il dono della vita.
Fu così che
anche l’immaginario del bambino morto cambiò in modo funzionale alla
nuova prospettiva ideologica: nell’epoca precedente era dimenticato e il
suo spirito scompariva, adesso il simbolismo religioso comincia a farlo
apparire, lo raffigura, lo rende presente in vari modi, ma è una
presenza triste, perchè è immaginato in una dimensione di totale
solitudine.
Oggi, nel linguaggio simbolico del nuovo culto, è diventato una creatura inquietante, evanescente.
Per definirlo, infatti, si comincia a usare una parola mai usata prima,
mizuko (水子), che significa “bambino d’acqua”: lo spirito è associato al
liquido amniotico in cui si trovava, la sua natura è rimasta liquida,
informe e trasparente come quella di un fantasma, il suo essere non è
mai stato, né mai sarà, solido, concreto e stabile.
Nel dopoguerra
il culto ai mizuko si definisce con chiarezza nell’apparato simbolico e
nella struttura rituale, e a partire dagli anni ’70 si diffonde in modo
impressionante e a tutti i livelli sociali; l’ambiente monastico
buddhista all’inizio ha esitato di fronte a queste pratiche, poi
gradualmente si è adeguato alle richieste dei fedeli, tanto che oggi
moltissimi templi gestiscono i riti per le anime degli aborti: alcuni
sono diventati dei centri di culto famosi, come il Nembutsusji e il
Ninnaji a Kyoto.
Ai piedi del sentiero che conduce al tempio, di
solito, c’è un’alta statua di Jizo, rappresentato con il tradizionale
bastone nella mano destra, con un bimbo nella mano sinistra e con altri
bambini che siedono intorno a lui e lo guardano.
Sulle pendici del
tempio ci sono migliaia e migliaia di statuette di Jizo, adornate con
bavaglini, berrettini rossi, mantelline: ognuna di esse è dedicata allo
spirito di un bambino morto.
Le forme rituali del mizuko kuyo sono
più o meno complesse e dispendiose e possono variare tra i templi,
perchè il culto è abbastanza recente e non è stato ancora codificato con
precisione, ma si delinenano delle costanti e alcuni temi religiosi di
fondo.
La donna che ha abortito si reca una o anche due volte al
mese al tempio prescelto: per non essere scoperta e mantenere
l’anonimato, sceglie un luogo lontano da casa, talvolta anche in
un’altra città.
Al tempio ha acquistato una piccola statua di pietra
e si nota immediatamente che l’immagine del bodhisattva ha subito un
ulteriore cambiamento, perchè adesso è scolpito con i tratti di un
bambino, in modo tale che le due realtà del salvatore e del salvato si
confondano.
I monaci collocano la statuetta in un cimitero a parte,
riservato a questo culto, e la donna la veste con un berrettino rosso,
un bavaglino o una piccola mantella.
Davanti alla statuetta la donna
accende una candela, brucia dell’incenso, recita dei sutra e pone delle
offerte, come un ciucciotto, un biberon di latte, delle caramelle e dei
piccoli giocattoli.
Spesso di fronte alla statuetta si vedono dei
sassolini ammonticchiati: li ha messi la madre per aiutare
simbolicamente il bambino nell’al di là. Si crede infatti che gli
spiriti dei bambini morti si raccolgano lungo il sai no kawara, la riva
sassosa del fiume degli Inferi, ma non riescano a passare all’altra
sponda perchè i demoni impediscono loro di salire sulla barca che porta
le anime verso la pace ultima. Così, queste larve giocano e
ammonticchiano sassi per farne degli stupa, in modo che questa azione
meritoria permetta loro di raggiungere l’altra sponda, ma i demoni glie
li distruggono ogni volta e senza lamentarsi loro ricominciano da capo.
Il culto ai mizuko impone alla mamma di confrontarsi con il suo bambino
mai nato e l’immaginario sulla sua condizione ultraterrena è angoscioso
e inquietante.
Nel periodo Tokugawa lo spirito del bambino
scompariva, nella prima metà del 900 comincia ad essere immaginato solo e
triste, in questi ultimi decenni è diventato un’anima maligna e
vendicativa.
L’azione vendicativa dello spirito è sottile e
pericolosa, diretta non solo contro la madre ma anche contro gli altri
membri della famiglia, specialmente gli eventuali nuovi figli, per
invidia nei loro confronti.
Se la donna che ha abortito è una
ragazza non sposata, si dice che lo spirito del bambino le faccia
perdere la capacità di concepire, le crei difficoltà a trovare marito,
le faccia venire malattie gravi e faccia ammalare i suoi genitori e i
suoi fratelli.
Se invece la donna è sposata, si dice che la faccia
diventare frigida, provochi l’infedeltà del marito, faccia insorgere
malattie e disagi psichici negli altri suoi figli, provochi incidenti
sul lavoro ai familiari.
La società giapponese contemporanea ha
rielaborato in un linguaggio moderno il concetto antico della potenza
maligna dei morti inquieti, creando un culto in grado di trasformare il
dolore della donna che ha abortito in un profondo senso di colpa e di
mantenere viva nel tempo questa angoscia segreta.
Tutte le norme
rituali obbligano la donna a ricordare sempre l’evento traumatico, il
culto la tiene vincolata a quel momento di dolore: i gesti che deve
compiere le creano davanti agli occhi la figura di un piccolo essere in
pena, che non cresce mai e che dipende sempre da lei.
La logica del
culto, imperniata sul concetto di tatari (maledizione), non da alla
donna nessuna via d’uscita: se la mamma non andasse al tempio, lo
spirito del bambino dimenticato si vendicherebbe sui suoi famigliari,
così la madre che ha abortito si sente colpevole non solo per il figlio
ma anche per tutte le eventuali disgrazie che dovessero accadere ai suoi
congiunti.
Il mizuko kuyo crea dunque un circolo vizioso di dolore:
il culto ingenera sensi di colpa nella madre ma è costretta a
celebrarlo se vuole difendere sé e il resto della sua famiglia.
Nella società contemporanea giapponese vi è uno scollamento tra la
situazione reale della donna, che conquista potere e indipenza sessuale,
e la vecchia visione della donna, come madre prolifica e moglie fedele:
il mizuko kuyō è proprio il risultato della sfasatura, che si è andata
creano nel dopoguerra, fra la nuova realtà femminile e i vecchi
paradigmi etici.
C’è ancora uno scarsissimo interesse per una
politica della contraccezione: il risultato è che l’aborto in Giappone è
diventato il mezzo principale per controllare le nascite, tanto che i
movimenti delle donne ipotizzano che tale problema sia volutamente
ignorato dall’ambiente medico, restio ad agire contro l’apparato diffuso
e molto lucrativo delle cliniche private specializzate in aborti,
legali e clandestini.
E’ interessante notare come il discorso
religioso non si sia concentrato tanto sul problema morale dell’aborto o
su come prevenire una gravidanza indesiderata: la nuova forma di culto
dà l’aborto per scontato, anzi lo utilizza come strumento per punire la
donna della trasgressione sessuale, destinata inesorabilmente a finire
male.
Ancora oggi in Giappone la maternità conferisce alle donne una
legittimazione della loro sessualità: per questo il dolore per l’aborto
è trasformato anche in un senso di rimorso di fronte al fallimento di
un ruolo sociale. Voci autorevoli accusano aspramente i templi buddhisti
di fare lauti guadagni con il culto dei bambini abortiti, sfruttando i
sensi di colpa delle donne; altri difendono il culto come forma di
espiazione per l’interruzione della maternità e contemporaneamente
invocano a gran voce che l’aborto sia di nuovo punito severamente dalla
legge.
Anche il mondo buddhista si interroga: la discussione sul
valore del culto è concentrata su quello che ne costituisce l’elemento
importante, il concetto di tatari, ovvero la forza vendicativa dello
spirito inquieto. Alcuni maestri rifiutano questa concezione, negando
che essa appartenga al patrimonio ideale del buddhismo; altri condannano
il culto come una forma di commercializzazione del sacro, in linea con
la tendenza di molti templi a fare guadagni monopolizzando il discorso
devozionale sulla morte.
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