martedì 8 febbraio 2022

265. Ucciso da una bara

 Chiunque ficchi il naso nella storia del cimitero di Kensal Green, si imbatte in un'immagine che ha fatto il giro del mondo, sia all'epoca dei fatti che al giorno d'oggi. Il disegno illustra un evento che mai penseresti né vorresti ritrovarti a descrivere facendo ricerche su un luogo di riposo.
L'illustrazione  è apparsa originariamente sulla prima pagina dell'Illustrated London News sabato 2 novembre 1872, pochi giorni dopo il tragico evento . Un uomo, Henry Taylor, viene ritratto a terra con un'enorme bara che lo schiaccia. Sullo sfondo, si vede la vedova dell'uomo di cui si stava celebrando il funerale che sviene, sopraffatta dalla scena. Gli altri presenti, impauriti e scioccati, si ritraggono, e un becchino osserva inorridito.
Incuriosita dalla vicenda, mi sono messa a spulciare sul web e, oltre alla foto della pagina originale, trovo anche la storia: un piccolo trafiletto di poche righe scritto nella seconda pagina che però fornisce  una descrizione di base di ciò che è successo.
Si legge:

     "Terminato il servizio in chiesa, la bara e le persone in lutto procedettero nelle carrozze verso il luogo della sepoltura fin quando fu dato l'ordine di girare, in modo che la bara, fabbricata con 4 libbre di piombo, scivolasse giù a capofitto . Si suppone che il morto abbia battuto il piede contro una pietra laterale e sia inciampato: gli altri portatori hanno lasciato andare la bara, che è caduta con grande forza sul defunto, fratturandogli mascella e costole."

Il povero Henry fu portato all'University College Hospital dove, nonostante gli sforzi dei medici, le sue ferite si rivelarono troppo gravi per riprendersi e morì il 24 ottobre, all'età di sessantasei anni.
Un'inchiesta che ebbe luogo due giorni dopo la sua morte con un verdetto registrato da un certo dottor Lancaster parla di "morte accidentale". E in una nota si suggerisce che mettendo delle cinghie attorno alla bara si sarebbero evitati ulteriori incidenti simili..
Ma chi era Henry Taylor, oggi ricordato principalmente per un incidente così strano e orribile? Le immagini ci raccontano solo una parte della storia: la fine della sua vita. Ma chi era prima?
Nel censimento del 1871 scopriamo che Henry Taylor era un sagrestano, sebbene nella versione del 1861 compaia sia come sagrestano che come becchino della Cappella di Camden. Vive a pochi poassi da lì, al numero 86 di Camden Street, dove si è trasferito da una precedente residenza (Spratt Street n.64), con la moglie Charlotte e tre dei loro otto figli.
La cappella (ora Cattedrale greco-ortodossa di Ognissanti) è stata progettata dalla stessa squadra (padre e figlio) che aveva costruito la Chiesa Nuova di San Pancrazio: la sua caratteristica torre infatti richiama la chiesa precedente ed è ispirata ad un monumento greco. In qualità di sagrestano, aveva il suo bel da fare, visto che nei documenti del 1854,  il numero di fedeli della domenica mattina in chiesa raggiunge un totale di 1650 persone. Sia i vivi che i morti tenevano quindi parecchio occupato e questo duplice ruolo di becchino e sagrestano lo rendeva una personalità importante a livello locale.
Il fatto che lo abbiano portato da Kensal Green all'UCL Hospital per le cure mediche la dice lunga sulle sue condizioni. Probabilmente, nessuno degli ospedali più vicini sarebbe stato attrezzato per aiutarlo.
Dopo il decesso, l'uomo fu sepolto nel lato orientale del cimitero di Highgate, non lontano da artisti del calibro di Karl Marx, Malcolm McClaren e Mr. Facts Not Opinions, nella piazza 137, tomba 19039.
Chissà come avrà fatto a cavarsela la moglie di Henry, in un'epoca in cui la morte di un marito poteva far precipitare le famiglie nella povertà e nella disperazione... Charlotte, a quanto pare, sembra ce l'abbia fatta a sopravvivere: il censimento del 1881 la registra come beneficiaria di un introito annuale non meglio specificato. Sarebbe morta due anni dopo, nel 1883, e si sarebbe riunita al marito nella tomba che condividono a Highgate East, mentre la tragedia del 1872 è da tempo stata dimenticata.
Un particolare interessante da sapere è che un suo amico di vecchia data, che portava la bara insieme a lui, scrisse la storia sull'Evening Standard, aggiungendo alcuni particolari circa l'incidente, diverso tempo dopo la pubblicazione iniziale. Secondo 'G.A.N', Henry stava trasportando l'estremità dei piedi della bara, ma gli fu chiesto di prendere la parte della testa: nel cambiare posizione, era inciampato sui piedi del collega e questo causò lo squilibrio che aveva portato alla caduta della bara. Secondo lui, gli altri portantini non avevano semplicemente lasciato la bara, ma avevano lasciato che Henry venisse schiacciato senza fare nulla per impedirlo, "totalmente insensibili alla vita di un simile", come scriveva con fermezza G.A.N, che a suo dire aveva tenuto per sé certi "scritti sensazionalistici" per evitare di infliggere ulteriore dolore alla famiglia di Henry.

 


Kensal Green Cemetery.  


Cattedrale di Ognissanti, Camden Town, disegnata nel 1828 da Thomas Shepherd. Henry viveva in una delle case proprio dietro la chiesa.

L'Old University College London Hospital a Gower Street. Questo edificio fu infine abbattuto e sostituito con la meraviglia gotica in mattoni rossi progettata da Alfred Waterhouse.


L'immagine apparsa originariamente nel 1872.

 

lunedì 7 febbraio 2022

264. "Pressato a morte"

Diciannove persone furono giustiziate durante i processi alle streghe di Salem all'inizio del 1691, la maggior parte delle quali furono impiccate. Giles Corey, invece, imputato nel processo alle streghe di Salem, ricevette una sentenza diversa.
Nato a Northampton, in Inghilterra, l'11 settembre 1611, emigrò prima del 1644 e divenne un ricco agricoltore nella colonia della baia del Massachusetts. Nel 1659 si stabilì a Salem Farms, appena a sud del villaggio di Salem. Si era guadagnato la reputazione di uomo duro e intransigente ed era apparso in tribunale in diverse occasioni, nel giugno 1649 per furto (per il quale fu multato) e nel dicembre 1675 per aver preso a bastonate un certo Jacob Goodale, senza ragione apparente. Goodale non si riprese mai dal pestaggio (più di cento colpi, fu specificato all'epoca) e morì dopo due settimane. Al processo, Corey venne condannato per averne causato la morte. Nel marzo del 1692, la sua terza moglie, Martha, fu arrestata con l'accusa di stregoneria. Un mese dopo, anche lui fu accusato di stregoneria e fu emesso un mandato di cattura nei suoi confronti. Il caso finì davanti al tribunale a settembre. Corey si rifiutò di fornire spiegazioni, affermando che non era disposto a sottoporsi a un processo da parte di una giuria che secondo lui aveva già deciso la sua colpevolezza. Poiché si era rifiutato di presentare una dichiarazione, venne torturato alla pressa per costringerlo a confessare, sebbene la pratica fosse considerata illegale  dal governo della colonia. Il 19 settembre del 1692, quindi,  venne spogliato, gli fu posta un'asse sul petto e poi vennero accatastate su di essa delle pesanti pietre. I suoi aguzzini, una pietra dopo l'altra, cercarono di fargli ammettere di praticare la magia nera e di essere devoto al diavolo, ma invano.
Le ultime parole di Corey, piuttosto che confessare qualcosa che non aveva fatto, furono solo:  "più peso" piuttosto che confessare qualcosa che non aveva fatto. Aveva 81 anni.
In un rapporto dell'epoca si legge testualmente: "Verso mezzogiorno, a Salem, Giles Corey è stato condannato a morte per essere rimasto muto". Il giudice Jonathan Corwin ordinò che il corpo fosse seppellito in una tomba anonima a Gallows Hill, dove due giorni dopo fu impiaccata sua moglie.
Ancora oggi, nel cimitero di Howard Street, a Salem, esiste la lapide commemorativa di Giles Corey, la cui iscizione dice:

"Giles Corey
Pressed to death
Sept. 19, 1692"

Si ritiene che Giles sia morto e sia stato sepolto nel campo adiacente alla prigione dov'era stato rinchiuso e solo in seguito portato qui, in quello che poi è diventato il cimitero di Howard Street. L'esatta posizione della sepoltura nel cimitero non è contrassegnata e resta tuttoggi sconosciuta.
Nel 1957, lo stato del Massachusetts si scusò formalmente per i processi alle streghe.








domenica 6 febbraio 2022

263. La finestra sulla tomba

 La famiglia Manning era una delle tipiche famiglie che vivevano a Holly Springs, nel Mississippi, alla fine del XIX secolo. Van Manning era un avvocato ed ex confederato arrivato in Mississippi intorno al 1860. Sua moglie Mary era una ragazza locale di famiglia benestante. Van intraprese una carriera legale di successo e in seguito prestò servizio alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, dal 1877 al 1883. Tuttavia, la sua vita fu piena di tragedie personali. Nel 1861, persero il figlio neonato, William Manning. La morte del bimbo fu un duro colpo per  Mary, che restò ossessionata dal terrore di dover seppellire un altro dei suoi figli. Nel 1871 nacque la loro figlia Mittie. All'inizio della primavera del 1875, la bambina di quattro anni si ammalò gravemente di una malattia sconosciuta. Van e Mary dovettero assistere con orrore al deperimento della bambina e alla sua morte, che avvenne il 22 aprile 1875. Quando arrivò il momento di seppellire sua figlia, Mary ebbe un esaurimento nervoso. Rifiutava categoricamente l'idea che la sua bimba venisse messa sotto terra. Infine, si trovò un compromesso e Mittie Manning fu sepolta in un sarcofago fuori dal terreno. Questo però non bastò del tutto a Mary, che voleva poter vedere il volto di sua figlia. E quindi, nella lastra di marmo che ricopriva la tomba, fu installata una finestra scorrevole a mo' di oblò, che permetteva a Mary di vedere la bimba.
Secondo alcune leggende locali, quando il corpo di Mittie iniziò a decomporsi, Mary impazzì per il dolore e si rifiutò di lasciare la tomba. Alla fine, Van fu costretto a seppellire Mittie sottoterra. La lastra originaria, con la sua finestra, è stata lasciata al suo posto.
In séguito, la famiglia Manning lasciò Holly Springs, abbandonando la tomba. Nei successivi 150 anni, la città "adottò" Mittie Manning e il suo insolito sepolcro. Nel 2020, la lapide, ormai gravemente deteriorata e danneggiata, è stata restaurata dagli abitanti del luogo. 

 






262. Un albero per due

 Lucretia Carew di Norwich, nel Connecticut, non aveva nemmeno un anno quando morì di difterite nel 1736, appena cinque giorni dopo sua sorella, Diadema, di 3 anni, morta allo stesso modo.
Le bambine furono le prime vittime di un'epidemia scoppiata nel New England dal 1735 al 1741. La malattia, altamente contagiosa, è oggi facilmente prevenibile ed è stata ormai debellata in quasi tutto il mondo dalle vaccinazioni che proteggono i bambini da difterite, tetano e pertosse. Ma allora era un'altra storia: la difterite era poco conosciuta in epoca coloniale.
Molte famiglie del New England persero tutti i propri figli nel giro di un mese.
Thomas Carew, nato nel 1701, e sua moglie, Abigail Huntington Carew, nata nel 1708, regalarono alle loro bambine una bellissima lapide realizzata dall'abile artigiano Obadiah Wheeler, influente scultore che viveva nella vicina Lebanon, in Connecticut.
L'uomo cesellò i nomi e le date di entrambe le bimbe e i nomi dei loro genitori attorno a un disegno centrale, un fiore con sei petali equidistanti, separati da sei cerchi, tutti all'interno di un grande cerchio, su una pietra a forma di pentagono.
Sono passati quasi 300 anni dalla morte delle ragazzine. I genitori sono sepolti nel cimitero di Old Norwichtown. Accanto ai loro genitori e ad una sorella c'è anche il loro fratello, che ha combattuto nella Rivoluzione, è tornato in patria ed ha avuto otto figli, morendo all'età di 82 anni. Manca però la lapide delle due sorelle, che ad un certo punto nè stata aggiunta a un elenco di lapidi mancanti.
Un mese fa, due ventinovenni di Rhode Island, Allison Palombo e suo marito, Christopher Mongeau, decidono acquistare una casa del 1871 nell'Hope Valley Historic District e cominciano i lavori di restauro. In quanto parte del distretto, la loro casa è presente nel registro nazionale dei luoghi storici del 2004.
La Palombo lavora da casa per la Acceleration Partners, una società di marketing di affiliazione globale, e Mongeau è un fotografo di paesaggi, matrimoni e viaggi.
E così, i due cominciano a sistemare il cortile e, come previsto dal piano di restauro, si cimentano nella rimozione della metà morta di un albero a due tronchi. Entrambi i tronchi sono fusi in uno alla base e poi cresciuti come alberi separati.
Ma dopo aver tagliato il tronco secco, Allison vede spuntare dal ceppo una  specie di roccia che sembra crescere all'interno dell'albero. Ma ben presto i coniugi riconoscono che non si tratta di una roccia: è una lapide.
Riescono a vedere anche un'iscrizione e un simbolo a forma di pentagono. Palombo pubblica le foto sul suo gruppo Facebook di Fans of True Crime Podcast, Rhody Murderinos. Qualcuno gli suggerisce di mettersi in contatto con il cimitero e lui rintraccia infine Margaret "Pegee" Malcolm, di Warwick, presidente della Rhode Island Historic Cemetery Commission. Non ci vuole molto per risalire alla lapide mancante delle bambine di Norwich.
I giovani coniugi vorrebbero adesso restituire la lapide al cimitero e stanno cercando di trovare qualcuno che possa estrarre la pietra senza danneggiare la parte viva dell'albero.
"Ci vorrebbero circa mille dollari per eliminare l'albero", ha detto Allison. "Tale importo è fuori budget. E non voglio davvero sacrificare i vivi per i morti."
Davvero singolare: due bambine e due parti di un albero... ma come questa lapide sia finita nell'albero nessuno lo sa. 

 



 


261. "Riportami a casa"

 In molti cimiteri del sud degli Stati Uniti, ci si può imbattere in tombe molto particolari. Si tratta di tombe ricoperte di conchiglie, ma non si tratta di conchiglie sparse semplicemente su una tomba, qui si parla tumuli sopra i quali le conchiglie sono state proprio cementate. Scopro che la pratica era abbastanza comune in tutto il sud degli Stati Uniti nell'era vittoriana, e non solo nelle zone costiere. Sembra che queste tombe siano particolarmente diffuse in Texas, ma ce ne sono parecchie anche in Alabama, Georgia, Mississippi, Louisiana e Florida, la maggior parte datate tra la fine del 1800 e il 1910.
Il tipo di conchiglie utilizzate  sono gusci di bivalvi di acqua salata, quindi ci si domanda perché ci fosse l'usanza di ricoprire di conchiglie non facilmente reperibili per tombe anche molto lontane dalla riva del mare.
Scandagliando i vari documenti, sono spuntate fuori diverse teorie, inclusa una molto interessante concernente l'economia del periodo.
Secondo "The New Encyclopedia of Southern Culture, Volume 23, Folk Art" di Crown, Rivers e Wilson, le conchiglie  rappresentavano per gli schiavi il ritorno in Africa: "Dicevano che il mare li aveva portati nel loro nuovo paese e che il mare li avrebbe riportati in Africa dopo la loro morte".
Tuttavia, molte delle tombe ricoperte di conchiglie appartengono a coloni bianchi, per cui  alcuni ipotizzano che i bianchi abbiano assorbito questa tradizione dagli schiavi.
Secondo gli esperti dell'Association for Gravestone Studies, invece, le conchiglie  avrebbero a che fare con il cristianesimo, affermando che, nell'ambito della chiesa, le conchiglie sono un simbolo del pellegrinaggio cristiano, del viaggio attraverso la vita e del battesimo. Nel medioevo, i cristiani indossavano una conchiglia per indicare che avevano compiuto un pellegrinaggio al santuario di San Giacomo di Compostela in Spagna, come afferma il sito web dell'associazione. Porre una conchiglia su una lapide quando la si visita è un'antica usanza e può avere diversi significati a seconda del background culturale delle persone che depongono le conchiglie. L'idea di attraversare uno specchio d'acqua verso la terra promessa o attraversare il fiume Stige nell'aldilà, anche il viaggio finale verso "l'altro lato", fa parte del simbolismo della conchiglia.
Secondo William Flake "Sonny" Joiner, un genealogista dell'Alabama, i gusci sono stati invece usati dai poveri meridionali come mezzo per proteggere le tombe. Il metodo tradizionale per contrassegnare una tomba (per i meno abbienti) nell'Alabama meridionale durante i primi anni e soprattutto durante l'era della ricostruzione era quello di creare un tumulo di terra. Inutile dire che le piogge spazzavano via questi cumuli abbastanza facilmente, finché si è scoperto che le conchiglie, disposte come delle tegole su un tetto, proteggevano efficacemente il cumulo di terra dalla pioggia ed erano anche decorative.
Le conchiglie non erano solo efficaci e belle, scrisse Joiner, erano anche economiche e reperibili. Il sale, durante l'era della ricostruzione era scarso e molto costoso. Per ovviare a questo, in molte comunità si formarono squadre di salatura che intraprendevano viaggi annuali verso la costa, dove facevano bollire l'acqua di mare o l'acqua delle saline, ricavandone cristalli di sale da riportare alla comunità. Mentre erano sulla costa, pescavano pesci, li pulivano, li sfilettavano e li mettevano sotto sale per portarli a casa. E un altro compito che avevano sulla costa era proprio la raccolta di conchiglie per le tombe dei loro cimiteri.
Chi visita la Louisiana e va a New Orleans si accorge immediatamente delle influenze che la tratta degli schiavi ha avuto qui. Ma quello che molti visitatori non sanno è che due terzi degli schiavi arrivati in ​​Louisiana attraverso l'Atlantico, proveniva dal Senegal, come dimostra il Louisiana Slave Database.
Quindi, anche se per la maggior parte delle persone, New Orleans e il Senegal sembrano due mondi a parte, in effetti la cultura di New Orleans è stata estremamente influenzata dalla cultura senegalese a causa della grande quantità di schiavi portati attraverso i porti del fiume Mississippi. E così nacque il lento ma graduale processo di creolizzazione.
Creolizzazione è un termine che viene spesso legato al sud ed è più di una semplice miscela; implica la creazione di nuove culture. Nuove culture create attraverso un contesto negativo. È un "processo di assimilazione in cui le culture vicine condividono determinate caratteristiche per formare una nuova cultura distinta".
A New Orleans, la cultura cerimoniale è stata influenzata dal Senegal in molti modi: come il cibo, la musica, la religione e la cultura cerimoniale e festosa. La storia della conchiglia fa parte delle tracce che qui sono state portate dai rituali funerari senegalesi. Le usanze funebri erano una delle poche cose della vita dei neri in cui i padroni bianchi tendevano a non intromettersi. E quindi molti dei rituali d'origine associati al rispetto dei morti sono stati mantenuti. Uno di questi rituali era appunto l'usanza di deporre sulle tombe oggetti personali, conchiglie bianche e ciottoli, ricreando una sorta di ambiente acquatico come sul fondo dell'oceano, di un lago o di un fiume.
Le conchiglie bianche erano simboli dell'immortalità e dell'acqua. Il dominio dello spirito era metaforicamente situato sotto specchi d'acqua che guidavano il defunto nell'aldilà. Le principali influenze dei rituali di sepoltura senegalesi furono del Serer. Il popolo Serer aveva rituali di sepoltura molto specifici. Usavano un tipo di pietra chiamato Laterite e Magalite che scolpivano e posizionavano in cerchio, dirigendo le pietre verso est.
Questi cerchi di pietre possono essere trovati solo nell'antico regno di Serer di Saloum. Oltre ai cerchi di pietre, costruirono anche grandi tombe di sabbia e continuano a costruirle fino ad oggi. Una delle caratteristiche dei tumuli e delle tombe era proprio la copertura di conchiglie. Le conchiglie “creano l'immagine del letto di un fiume, dove, nella credenza africana, si trova il regno dei morti”. Alcune tombe erano delimitate da conchiglie, altre interamente ricoperte. Le conchiglie sono state utilizzate anche per creare disegni e decorazioni.
Le conchiglie che si trovano sulle tombe del sud degli Stati Uniti sono un po' come le monete che si gettavano in certe fontane per esprimere un desiderio. E ognuna di quelle conchiglie porta con sé lo stesso desiderio, il desiderio di chi è stato strappato via dalla propria terra senza potervi fare più ritorno: "Riportami a casa." 

 















sabato 5 febbraio 2022

260. Moses e Marten Lucey

 West Redonda Island è un'isola nella Columbia Britannica, in Canada. Fa parte delle Discovery Islands, un arcipelago tra l'isola di Vancouver e la terraferma e tra lo stretto di Georgia e lo stretto di Johnstone. Proprio qui, in un groviglio di vegetazione, su un tratto disabitato della costa, appena a sud di Connis Point, si trova una lapide abbandonata e dimenticata da tutti. Si tratta della tomba di due bambini. La lapide, di fabbricazione commerciale, con il suo angelo in rilievo, dice:
"In loving memory of
Lucey
Moses 2 years old
Marten 1 year old
They died
1892"
I nomi sono insoliti e la data, appena un anno dopo i censimenti federali condotti negli Stati Uniti e in Canada, avrebbe dovuto rendere le identità dei bimbi facilmente rintracciabili, invece non è stato così. I nomi di Moses e Marten Lucey non risultano presenti in nessuno dei due censimenti. I loro genitori non registrarono né la loro nascita né la loro morte. Non risultano rintracciabili nemmeno cambiando l'ortografia dei nomi. La loro famiglia non è presente in nessun elenco delle Discovery Islands e il padre non risulta nemmeno nelle liste elettorali. I Lucey devono aver speso una cifra considerevole per far fare una lapide come questa e farla arrivare sin qui lungo la costa, probabilmente trasportata sulla nuova linea Union Steamship, ma non hanno lasciato altra traccia.
Ci sono diverse sepolture disseminate per le Discovery Islands,  la maggior parte delle quali non è nemmeno contrassegnata, dato che le piccole croci di legno che le segnalavano sono ormai scomparse da tempo e le collocazioni esatte sono ormai sconosciute. Ne abbiamo notizie solo perché i discendenti parlano ancora di queste tombe, ma a Connis Bay sono ormai diventate tombe fantasma senza storia.
Si è cercato di ricostruire la storia dei bambini Lucey, ma gli indizi forniti dal sito sono pochi. Questa è l'unica spiaggia di ghiaia nei dintorni  e ha dei ruscelli presenti tutto l'anno a ciascuna estremità, quindi è (ed era al tempo) un campeggio naturale. A giudicare dai detriti, negli anni '30 o poco più tardi, qui doveva esserci un campo di disboscamento, e forse in quel periodo venne posta una piccola recinzione metallica attorno alla tomba. In questo punto deve esserci anche stato un campo per una miniera di ferro chiamata Elsie, che si trovava da qualche parte nell'estremità settentrionale montuosa dell'isola di West Redonda nel 1892. Secondo i rapporti, 626 tonnellate di minerale di ferro furono caricate direttamente sulle navi tramite uno scivolo aereo che partiva dalla ripida parete di quest'isola e vennero spedite in Oregon nel 1893, ma in seguito i lavori si fermarono. All'epoca, c'era una profonda recessione e il valore del minerale probabilmente non copriva le spese di estrazione. Ci sono buone probabilità che i genitori di Marten e Moses siano stati in qualche modo coinvolti con questa miniera, a giudicare dalle date. Ed è probabile che avessero più soldi della maggior parte delle persone presenti qui, perché una lapide del genere era una spesa che altri non potevano permettersi. Forse, il signor Lucey era un ingegnere assunto dai proprietari della miniera, i fratelli DeWolf di Vancouver.
Lucey è un cognome non comune qui e trae origine da una piccola contea irlandese. Ci sono solo otto persone con quel nome in Canada oggi. Si è cercato di condurre una ricerca tra queste persone, che hanno risposto all'appello, incluso un genealogista in Inghilterra, ma nessuna di loro ha potuto fornire alcun indizio. Si è fatto vivo anche un discendente di un uomo di nome Acheson Lucey, che era un ingegnere minerario e che visse gran parte della sua vita nella Columbia britannica. Acheson si sposò nello Stato di New York nel 1896 e si trasferì in qui qualche tempo dopo, dove si sposò per la seconda volta ed ebbe una famiglia. Se questo è il nostro uomo, sarebbe dovuto venire qui prima del suo matrimonio a New York, con i figli di un precedente matrimonio, il che sembra improbabile.
Ed è qui che finisce la nostra storia. Si sa mai che qualcuno di voi, leggendo questa storia, possa fornire altri indizi per le ricerche. Intanto, mi piace pensare che, dopo queste poche righe, i due bimbi continuino a riposare nel loro letto di terra un po' meno dimenticati e sconosciuti di prima...

 


 

259. Sepolti nel ghiaccio

 «Lui è lì, è proprio lì». Gli archeologi si sono tirati indietro scioccati e sbalorditi. Niente li aveva preparati all'incontro con il marinaio vittoriano della spedizione perduta, sepolto nel terreno ghiacciato dell'Alto Artico canadese. Sembrava fosse appena morto.
La spedizione Franklin doveva essere l'esplorazione finale del passaggio a nord-ovest, la rotta marittima che collegava l'Europa e l'Asia attraverso l'Artico canadese. Invece, la spedizione si concluse in un disastro. Le due navi, la Erebus e la Terror, andarono perse. Gli indizi sulle cause di tale fallimento furono da subito pochi e misteriosi. La spedizione era ben attrezzata per un lungo viaggio nell'Artico. E allora perché finì così male?
Le navi salparono dall'Inghilterra nel maggio 1845 con 134 uomini, sotto la guida di Sir John Franklin. Furono visti l'ultima volta nella baia di Baffin nel luglio dello stesso anno, quando cinque membri della spedizione furono congedati e rimandati a casa con dei balenieri. Dopo, ci fu solo silenzio.
Dato che la spedizione era fornita di provviste per tre anni, l'Ammiragliato di Londra non inviò missioni di salvataggio fino al 1848. A quel punto, la maggior parte dei membri dell'equipaggio di Franklin era già morta.
Solo le ricerche effettuate dal 1850, fecero finalmente luce sul destino della spedizione, che aveva svernato sulla piccola isola di Beechey nel 1845/46. Vennero infatti ritrovati i quartieri di svernamento, compreso un piccolo cimitero con le sepolture di tre marinai morti in quel periodo.
Le navi di Franklin erano salpate da Beechey Island dirigendosi verso sud attraverso Peel Sound nell'estate del 1846. Entrambe le navi rimasero bloccate nel ghiaccio al largo dell'isola di King William nel settembre di quell'anno e lì avvenne il secondo svernamento. Con gran sorpresa dei membri della spedizione, il ghiaccio non si sciolse durante l'estate del 1847 e la situazione fu aggravata dalla morte di Franklin, l'11 giugno 1847, secondo una nota ritrovata in un tumulo sull'isola di King William.
Dopo un altro svernamento al largo dell'isola di King William, gli uomini abbandonarono le navi alla fine dell'aprile del 1848. Semplicemente, non potevano aspettare un altro anno nella speranza che il ghiaccio si sciogliesse, lasciando libere le navi. Le provviste non sarebbero bastate fino ad allora e gli uomini non sarebbero stati in grado di muoversi verso sud.
Nell'aprile 1848 erano già morti 9 ufficiali e 15 marinai, secondo la nota sopra menzionata. L'equipaggio superstite cercò di raggiungere il fiume Back e un avamposto della compagnia della Baia di Hudson più a sud. Si trascinarono dietro delle scialuppe di salvataggio su slitte con provviste e attrezzature. Durante il viaggio, i marinai incontrarono gli Inuit locali. Gli Inuit stessi riferirono in séguito alle squadre di ricerca di questi incontri e della successiva scoperta dei cadaveri dei membri della spedizione. Nei resoconti si parla anche di episodi di cannibalismo tra i marinai.
I membri della spedizione non ce la fecero, lasciando scheletri e manufatti sparsi lungo il percorso sulla costa occidentale e meridionale dell'isola di King William e sulla costa settentrionale della terraferma. I gruppi di ricerca degli anni 50 scoprirono molti di questi resti.
La perdita della spedizione Franklin rimane ad oggi un mistero. Non si spiega perché ci sia stato un così alto numero di morti all'inizio della spedizione, quando altre spedizioni artiche avevano perso molte meno vite (ad esempio, la spedizione di James Ross Clark nella stessa area dal 1829 al 1833 con soli tre uomini persi). Non si capisce perché la spedizione di Franklin sia andata così male e non ci sono prove concrete per una base solida su cui fondare teorie di alcun tipo.
Il primo lavoro forense sulla spedizione di Franklin fu effettuato da Owen Beattie, allora assistente professore di antropologia all'Università di Alberta, che iniziò il suo lavoro nel 1981. In quell'anno e nel successivo, condusse indagini sul lato occidentale dell'isola di King William insieme alla sua squadra, recuperando le ossa dei membri dell'equipaggio. I segni sulle ossa confermarono le storie degli Inuit sul cannibalismo. Ancora più interessante fu la scoperta dei livelli di piombo presente nelle ossa dei marinai rispetto alle ossa Inuit recuperate durante la stessa indagine.
L'avvelenamento da piombo può essere fatale. L'aumento del livello di piombo porta a una serie di sintomi gravi, come dolori articolari e muscolari, difficoltà cognitive, mal di testa e dolore addominale. Questa è una cosa che davvero non ci vuole in condizioni estreme come quelle artiche.
Sebbene i livelli di piombo più alti della norma, non potevano però bastare a spiegare quel disastro,  perché il piombo normalmente impiega un po' di tempo per accumularsi nelle ossa. Gli alti livelli di piombo potrebbero essere il risultato delle condizioni ambientali e non l'esposizione al piombo durante la spedizione. Beattie aveva bisogno di campioni di tessuto per stabilire quando il piombo era entrato nei corpi, preferibilmente gli servivano capelli o unghie.
Beattie rivolse allora la sua attenzione al piccolo cimitero di Beechey Island e alle tre tombe dei marinai di Franklin sepolti lì. Questi marinai morirono presto, durante il primo svernamento. Tre morti precoci non erano normali durante le spedizioni artiche nel 19° secolo. Già nel 1850, tali morti avevano sollevato il sospetto che qualcosa fosse andato storto già dall'inizio della spedizione. Beattie  ipotizzò che forse i corpi potevano essere stati preservati dal permafrost e che quindi avrebbero potuto fornire informazioni più precise sulle cause della morte e sui livelli di piombo. Beattie chiese dunque l'autorizzazione di aprire le tombe per riesumare i cadaveri ed eseguire un'autopsia.
Beattie aveva buone ragioni per credere che i corpi dei tre marinai potessero essere stati preservati dal ghiaccio del permafrost. Tuttavia, non tutto il ghiaccio preserva i corpi umani. Prima di passare alle scoperte di Beattie, diamo quindi una breve spiegazione del motivo per cui il ghiaccio del permafrost conserva così bene i resti rispetto, ad esempio, al ghiaccio glaciale.
I corpi, umani o animali che siano, non si conservano altrettanto bene nel ghiaccio glaciale perché è probabile che siano esposti all'aria, anche se solo in modo intermittente. Inoltre, il movimento del ghiaccio li fa a pezzi. Se i corpi non sono molto recenti, si conservano principalmente in modo scheletrizzato, solo a volte con annessi tessuti molli. Ötzi è l'unica eccezione a questa regola.
La conservazione nel permafrost è una storia completamente diversa. La sepoltura nel ghiaccio del permafrost sigilla il corpo dall'esposizione all'aria aperta e spesso non ci sono nemmeno movimenti  del ghiaccio. In sostanza, i corpi sono permanentemente conservati in un congelatore e quindi possono essere incredibilmente ben conservati. Cioè, fino a quando il permafrost non si scioglie o non viene rimosso, come accade in Siberia.
Le sepolture umane nel permafrost artico sono note in diverse località  grazie alle prime tombe di balenieri o esploratori. Gli Inuit tradizionalmente seppellivano i loro morti fuori dalla terra, mentre balenieri ed esploratori europei, avendo una fede cristiana, richiedevano una sepoltura nel terreno. Nell'alto Artico, ciò ha comportato degli scavi in profondità nel duro permafrost per poter seppellire i morti.
Le sepolture nel permafrost possono essere incredibilmente  ben conservate. Se in estate c'è un piccolo scioglimento dello strato di permafrost più alto, le sepolture restano essenzialmente congelate nel tempo. Se c'è un movimento di permafrost a causa di cicli di gelo-disgelo, le sepolture possono risalire in superficie.
I corpi umani nel permafrost vengono talvolta indicati come mummie di ghiaccio, però tecnicamente i corpi non sono preservati dalla mummificazione naturale, ma dal freddo. Sono congelati, non mummificati. Questo è il motivo per cui il recente riscaldamento dell'Artico ha portato alla graduale distruzione di un gran numero di tombe del genere. Quando si scongelano, i processi naturali iniziano a decomporre i corpi.
L'idea di Beattie di esaminare i corpi dei membri della spedizione Franklin, sepolti nel permafrost sull'isola di Beechey, si rivelò buona.
Organizzare una vera e propria esumazione nel mezzo dell'Artico canadese non è un'impresa da poco in termini di logistica e permessi, ma nell'estate del 1984 Beattie era finalmente pronto.
Lui e il suo team iniziarono con l'apertura della tomba del capofuochista John Torrington. Secondo l'iscrizione sulla lapide, era morto il 1° gennaio 1846. Era stato il primo marinaio a morire durante la spedizione.
Proprio come doveva essere successo a chi si era trovato a scavare per la sepoltura originale, il team di Beattie si ritrovò di fronte ad un duro lavoro per farsi strada attraverso il ghiaccio. Finché, alla profondità di circa un metro e mezzo, apparve finalmente il coperchio della bara. Sollevato il coperchio, la squadra si ritrovò a guardare il morto intrappolato in un blocco di ghiaccio. Utilizzarono dell'acqua calda per scongelare i resti, metodo che viene normalmente utilizzato nei siti glaciali quando i manufatti sono inglobati nel ghiaccio.
Il corpo era incredibilmente ben conservato, così come i vestiti. John Torrington doveva essere gravemente malato al momento della morte, perché era estremamente magro, pesava solo 38,5 kg. Le sue mani erano prive di calli e, poiché era un fuochista, questo ci dice che non era stato in grado di lavorare per un bel po' di tempo prima di morire.
L'autopsia, e la successiva analisi dei campioni prelevati, dimostrarono che Torrington soffriva di tubercolosi. La causa della morte era stata probabilmente una polmonite. I campioni dei capelli e delle unghie rivelarono alti livelli di piombo, anche più delle ossa dell'isola di King William precedentemente esaminate. Quindi forse l'avvelenamento da piombo lo aveva indebolito, portandolo infine alla morte per polmonite.
Beattie e la sua squadra tornarono a Beechey Island nel 1986 per riesumare gli abili marinai John Hartnell (morto il 4 gennaio 1846) e William Braine (morto il 3 aprile 1846). In entrambi i casi, l'autopsia e la successiva analisi indicarono come causa del decesso una polmonite dovuta alla tubercolosi, proprio come nel caso di John Torrington. Non c'erano segni di scorbuto. Anche il livello di piombo nei capelli e nelle unghie di Hartnell e Braine era alto, ma inferiore a quello di Torrington.
Sorprendentemente, dopo aver rimosso i vestiti di John Hartnell, si è potuto constatare che era stato sottoposto ad autopsia prima della sepoltura. Pare che Harry Goodsir, il medico della nave (o forse i suoi superiori), si fosse chiesto perché l'equipaggio avesse subito due perdite nel giro di così poco tempo.
Dopo le autopsie, i corpi vennero riseppelliti nelle rispettive tombe e le lapidi originali ricollocate al loro posto.
Beattie concluse che l'avvelenamento da piombo aveva contribuito in modo significativo alla morte dei tre marinai e probabilmente anche all'esito catastrofico della spedizione. Affermò che il piombo rinvenuto nei marinai riesumati veniva dalle saldature delle lattine dei cibi in scatola. A sostegno di ciò, Beattie fece un'analisi isotopica, dimostrando che il piombo nei capelli e nelle saldature avevano la stessa origine.
La teoria dell'avvelenamento da piombo era chiara e, dopo aver letto il libro di John Geiger sul lavoro di Beattie, sembrava sicuro che la spiegazione dovesse essere quella. Tuttavia, i successivi riesami dei campioni e altri dati storici sollevano dei dubbi sul fatto che le cose siano così semplici.
Cosa c'è che non va nell'ipotesi del piombo e del cibo? Ebbene, prima di tutto: come facciamo a sapere che il livello nei tre velisti riesumati era effettivamente più alto del normale per questo gruppo di individui? Nello studio di Beattie manca un gruppo di controllo, ovvero altri marinai britannici dello stesso periodo. Ovviamente, un tale gruppo di controllo sarebbe difficile da trovare, oggi come oggi. I livelli di piombo nelle ossa dei membri della spedizione Franklin sono, ad esempio, simili ai campioni di un cimitero romano nel Dorset, in Inghilterra, cioè riflettono un ambiente ad alto contenuto di piombo, non un avvelenamento da piombo. Anche altre spedizioni contemporanee facevano affidamento in parte su cibi in scatola, ma non per questo erano finite male.
In generale, l'uso del piombo in associazione con cibi e bevande nel XIX e all'inizio del XX secolo era molto più elevato di oggi. È improbabile che gli alti livelli di piombo nelle ossa provengano da un'esposizione nel corso della spedizione. Riflette piuttosto un'esposizione nel corso di tutta la vita.
A causa dei processi chimici, la perdita di piombo della saldatura sarebbe stata comunque limitata. Ciò è confermato dagli studi sulle lattine conservate della spedizione Franklin. Sulla base dei registri, meno del 15% delle scorte di cibo erano cibi in scatola. La spedizione avrebbe utilizzato prima il cibo fresco, rendendo quasi impossibile la teoria che il cibo in scatola fosse la causa degli alti livelli di piombo nelle ossa dei tre marinai.
I livelli più elevati di piombo nei capelli dei morti a Beechey Island potrebbero essere stati causati dal fatto che alla fine della loro vita avevano vissuto principalmente di una dieta liquida. Moltissime bevande in quel periodo avevano un alto contenuto di piombo. Oltretutto, non ci sono sintomi diagnostici di avvelenamento da piombo nei resti degli uomi esaminati, come ad esempio calcificazioni nei nuclei cerebrali. L'analisi  isotopica è quindi da considerarsi inconcludente.
Uno studio successivo dell'unghia del pollice di John Hartnell, raccolta dal team di Beattie, suggerisce che l'alto livello di piombo è accompagnato da un alto livello di zinco e rame, pertanto può essere stato causato dal rilascio di questi metalli immagazzinati nelle ossa durante le ultime fasi della malattia. Anche i farmaci somministrati durante l'ultimo periodo di vita, potrebbero aver contribuito agli alti livelli riscontrati.
Al momento, la conclusione è che i livelli di piombo non sono sufficientemente alti per aver svolto un ruolo importante nello svolgersi del disastro, ma potrebbero aver svolto un ruolo di supporto. Alla fine di tutto, il motivo principale del catastrofico fallimento della spedizione sembra essere  stato il clima rigido dell'Alto Artico canadese e il verificarsi inaspettato di una mini Era Glaciale.. Franklin e i suoi uomini stavano cercando di farsi strada attraverso il passaggio a nord-ovest soffocato dalla morsa del ghiaccio nel peggior momento possibile.
Dopo anni di indagini, anche le due navi di Franklin sono state ritrovate solo di recente, l'Erebus nel 2014 e la Terror nel 2016. Entrambi i relitti sono apparsi in luoghi sorprendenti, lontani da dove erano rimasti bloccati nel ghiaccio nel 1848. Le informazioni degli Inuit hanno svolto un ruolo cruciale nella scoperta delle navi al di fuori del perimetro di ricognizione originale, al largo della costa nord-occidentale dell'isola di King William.
L'Artico si sta riscaldando, molto più del resto del globo. Laddove Franklin e i suoi uomini un tempo combattevano per la propria vita nel ghiaccio, i crocieristi ora navigano comodamente. Nei decenni a venire, l'Artico continuerà a riscaldarsi, portando a un'ulteriore perturbazione degli ecosistemi e a un ulteriore scioglimento del permafrost. I marinai congelati nel cimitero di Beechey Island si scioglieranno e scompariranno.
Non perderemo solo gli ultimi resti della spedizione Franklin a causa del riscaldamento. Perderemo l'Artico. La Terra cambierà. Ci stiamo dirigendo verso l'ignoto.
C'è forse una lezione da imparare dal destino della spedizione Franklin?


 


Il piccolo cimitero di Beechey Island. Tre tombe della spedizione Franklin e una quarta tomba di una delle spedizioni di ricerca


Il piccolo cimitero di Beechey Island. Tre tombe della spedizione Franklin e una quarta tomba di una delle spedizioni di ricerca


Il piccolo cimitero di Beechey Island. Tre tombe della spedizione Franklin e una quarta tomba di una delle spedizioni di ricerca


Il corpo di John Torrington. Il corpo è stato adagiato su un letto di trucioli di legno, alcuni dei quali possono essere distintamente visti intorno alla testa


Le mani di John Hartnell, che mostrano l'effetto del ghiaccio del permafrost sulla conservazione




La nota trovata in un tumulo sull'isola di King William, che descrive la difficile situazione della spedizione di Franklin e la decisione di dirigersi verso il fiume Back


L'ubicazione dei relitti di HMS Erebus (E) e HMS Terror (T).

domenica 18 aprile 2021

258. Genoveffa Comencini. Un fatto di cronaca.

 C’è una piccola tomba a poche decine di metri dall’ingresso del cimitero di Monza davanti alla quale si fermano in tanti. Qui non manca mai un fiore, un pupazzetto colorato, una bambolina. E fiori sempre freschi. Perché si fa così, in genere, con le tombe dei bambini. E in questa tomba c’è sepolta proprio una bambina che, anche se di anni ne sono trascorsi ormai oltre novantasette da quando è stata seppellita, avrà sempre due anni e mezzo.  La storia di Genoveffa Comencini vive ormai solo nei racconti, tramandati di generazione in generazione e sempre più sfocati, trasmessi dai monzesi. Genoveffa fu vittima allora delle atroci angherie dei suoi stessi genitori, Cesare Comencini e Maria Petitti (i nomi della madre sulle cronache dell’epoca variano almeno tre volte, ma questo dovrebbe essere quello corretto). Legata col fil di ferro al letto, denutrita, lasciata al gelo, maltrattata per ucciderla. Alla fine colpita alla testa mortalmente. Una storia dolorosa che fece scalpore fra i Monzesi, che organizzarono i funerali e fecero costruire un monumento funebre per commemorare la piccola.
Ora, a distanza di tanto tempo, la vicenda è stata ricostruita, spulciando diversi giornali dell'epoca, anche pubblicati all'estero (addirittura negli  Stati Uniti d'America), per scoprire cosa ne sia stato alla fine dei suoi assassini e per farsi un’idea, se mai fosse possibile, di cosa li abbia spinti a una tale ferocia.
Sul corpicino della piccola Genoveffa, morta il 2 gennaio 1924 in seguito alle atroci angherie dei suoi genitori, vengono effettuati i primi rilievi nei giorni successivi al decesso. Oltre ai segni sui polsi, dovuti probabilmente al fatto che la piccola veniva legata con del fil di ferro, emergono vaste tracce di ecchimosi sulla fronte, che si scopriranno in seguito essere la causa ultima della sua morte, come se la bimba fosse stata colpita alla testa o scaraventata con violenza a terra. Intanto, in attesa dell’esito dell’autopsia, il padre, prelevato dalla sua casa in via Carlo Alberto 26, dove era andato ad abitare con la famiglia da pochi mesi, è in galera. Mentre la madre viene lasciata per il momento a piede libero. Dopo mesi di silenzio, nei quali però l’atroce fatto, soprattutto a Monza, non viene certo dimenticato, si arriva finalmente al processo. Le indagini intanto hanno fatto un po’ più di chiarezza sui contorni dell’oscura vicenda.
Si ricostruiscono un po’ di cose. Cesare Comencini, impiegato di 29 anni, originario di Foggia, si sposa con Maria Petitti, 28 anni, di Milano, nel 1919. I due hanno un figlio, l’amatissimo Attilio. Il 4 luglio 1921 nasce però anche una bambina, a cui viene dato il nome di Genoveffa. La piccola non viene accolta bene e la madre si rifiuta di allattarla, pur avendone la possibilità, affidandola ad una balia. Raccontano le cronache dell’epoca che, dopo qualche mese, la nutrice non viene più pagata come pattuito, nonostante presenti addirittura denuncia alla polizia per richiamare i genitori ai propri doveri. E quando – non avendo ottenuto alcun risultato – riporta la piccola alla sua famiglia, la madre non la fa neppure entrare e dice alla donna di lasciarla sull’uscio. La nutrice, impietosita, la riprende allora con sé, almeno all’inizio, fino a quando la piccola viene affidata ad un cantoniere e alla sua famiglia. Nella casa della sua vera famiglia la piccola Genoveffa rientrerà così soltanto il 24 novembre 1923, quando i Comencini si trasferiscono a Monza, in via Carlo Alberto 26. Cominciano quaranta giorni di orrore per la piccola, cui non viene risparmiata nessuna violenza e nessuna sevizia, tanto da scandalizzare i vicini di casa che provano a più riprese a intercedere per lei, lasciata fra l’altro sempre seminuda tremante nonostante i rigori dell’inverno. La piccola viene addirittura legata col fil di ferro o con uno strofinaccio fra mandibola e fronte che le impedisca di piangere troppo rumorosamente. E la madre, alle rimostranze dei vicini, risponde sprezzante: «Quella là non arriverà ad essere grande, perché prima la strangolerò». Si arriva al giorno fatidico, il 31 dicembre del 1923, quando una vicina di casa la trova morente seminuda su un foglio di giornale, mentre genitori e fratellino sono prima al cinema e poi al ristorante a festeggiare. Il fratellino, lui stesso terrorizzato, alla richiesta di spiegazione su chi avesse ridotto la bimba in quelle condizioni, dice soltanto: «La mamma! La mamma!».
Il medico chiamato a visitarla si ripromette di tornare a sorpresa a vederla. Verrà invece chiamato il 2 gennaio dal padre della piccola. Troppo tardi. La bimba è morta da almeno un’ora. La madre proverà a sostenere che la piccola è rimasta soffocata da un boccone di cibo. Peccato che, al di là delle inequivocabili ferite che raccontano tutt’altro, nel suo stomaco non si troverà traccia alcuna di cibo da almeno sette ore. L’indignazione popolare assume proporzioni inimmaginabili. La gente sa come sono andate le cose, o almeno se ne è fatta un’idea. Cesare Comencini viene subito arrestato. Sua moglie lo sarà 26 giorni più tardi. Alle esequie, e poi al processo, parteciperanno centinaia di persone. Nel corso dei lunghi interrogatori, dopo aver tentato invano di negare le proprie responsabilità, i due genitori danno una propria versione dei fatti che ammette almeno parzialmente quanto effettivamente avvenuto. La madre in particolare confessa di non essere mai riuscita ad amare quella piccola «perché mi guardava con indifferenza, come un’estranea», e di aver allora deciso di ucciderla, cosa che avrebbe poi fatto - sostiene - anche con il primogenito e con se stessa. La perizia psichiatrica la giudica «amorale e costituzionalmente anaffettiva», ma nega ogni possibile deficienza mentale o neuropatia. Anche il ricovero momentaneo al manicomio del Mombello, dove era stata mandata in osservazione, esclude ogni patologia.
Dal 15 al 19 maggio del 1924 viene così fissata la discussione della causa a carico dei coniugi Cesare Comencini, 29 anni, e Maria Petitti, di un anno più giovane. Ad essi viene contestato di avere "dal 24 novembre 1923 al 2 gennaio 1924, a fine di uccidere, cagionata la morte della loro figlia Genoveffa, di anni due e mesi sei: commettendo il fatto con premeditazione, con gravi sevizie e per solo impulso di brutale malvagità, mediante mali trattamenti continuati, lesioni in varie parti del corpo prodotte da percosse, da legatura di polsi con filo di ferro ed altrimenti, ed in special modo per avere il 1° gennaio inferto alla bambina stessa lesione da corpo contundente alla regione fronto-orbitaria, che produsse emorragia endocranica, causa diretta della morte avvenuta il dì successivo". Il processo si rivelerà molto movimentato, in molti assistono alle sue fasi, i banchi del pubblico – soprattutto monzese e soprattutto femminile – risultano sempre gremiti. E il 19 maggio si arriva finalmente alla sentenza. Nell’arringa conclusiva, la pubblica accusa ricorda in particolare il dramma degli ultimi giorni a cavallo di Natale, con la piccola abbandonata dalla sua intera famiglia. Un periodo «di sofferenze e di strazio», in cui la piccola viene abbandonata sola in casa, mal nutrita e mal vestita, i polsi legati, i lividi sul volto, mentre padre, madre e fratello sono fuori e pranzo e poi addirittura al cinema.
"Condannatemi, condannatemi pure, ma fatemi andare via di qui: non voglio, non posso ascoltare più!", esclama in aula la madre come una leonessa ferita. In un processo che la vede spesso urlare e rispondere con rabbia alla accuse che le arrivano dai tanti, troppi testimoni, pescati soprattutto fra i vicini di casa che assistevano da mesi a quanto accadeva al di là delle mura della casa dove erano andati a vivere i Comencini. La richiesta dell’accusa è pesantissima: vuole che il reato sia quello di "omicidio aggravato", provato dalla lunga serie di maltrattamenti, dalla negligenza, dall’abbandono, dalla mancanza di ogni cura dopo la terribile caduta che secondo la madre avrebbe provocato la ferita alla testa mortale per Genoveffa. Il marito, che pure risulta estraneo all’ultimo episodio di violenza, anche se in aula rivendica la bontà dei propri mezzi educativi (!), viene comunque accusato di concorso nell'omicidio. Viene respinta dall’accusa anche la richiesta di concedere la seminfermità mentale alla madre, che avrebbe sopportato "il peso di una terribile ereditarietà" di cui non si capisce in realtà la natura.
L’esito del processo, un po’ a sorpresa, va però a sconfessare le richieste della pubblica accusa. La donna viene condannata infatti a 8 anni e 4 mesi di reclusione, con il condono di 4 anni della pena. Il padre se la cava con una condanna a 5 anni di reclusione, 2 dei quali condonati. Il verdetto viene accolto nel silenzio generale, sia da parte degli imputati che del pubblico attonito. Perché Cesare Comencini e sua moglie Maria Petitti rifiutarono la piccola Genoveffa e fecero di tutto per ucciderla con i loro maltrattamenti? Neppure il processo novantasette anni fa lo ha chiarito.  Forse gli unici che potrebbero spiegare qualcosa sono gli stessi protagonisti di questa terribile vicenda, ma ormai sono tutti morti. Da otto anni, anche il fratellino di allora - ultimo testimone - è passato a miglior vita. E poi, quando sua sorella Genoveffa è morta, lui – Attilio, il figlio prediletto della coppia assassina - era piccolo. E non ha colpe per quanto accaduto in via Carlo Alberto 26. Era troppo piccolo, e quella sorella l’aveva vista arrivare in casa sua da pochissimi giorni, quaranta per l’esattezza, forse senza ben capire nemmeno chi fosse.  Dopo quel processo e la condanna dei suoi genitori, Attilio è ovvviamente cresciuto e si è rifatto una vita, ha lavorato come rappresentante di commercio, si è sposato, ha avuto dei figli. Sua moglie, che ha confermato i fatti ma si è trincerata dietro un silenzio carico di significati, ha dichiarato: "Mio marito è morto, e in casa non si parlava molto di quella vicenda. L’ho conosciuto quando ero molto giovane, mio suocero non l’ho mai visto, ho avuto solo a che fare con la madre di mio marito ma di più non posso dire: sono passati tanti anni, lasciate perdere".
Ormai non resta che lasciar perdere, ma non lasciare che si perda anche la storia della piccola Genoveffa, per cui qualche riga vale ancora la pena spenderla.

 


257. Il cimitero di animali più antico del mondo

 Un cimitero di oltre duemila anni è stato scoperto a Berenice, antica città egizia sul Mar Rosso fondata nel 275 a.C. dal faraone Tolomeo II, in memoria della madre Berenice. La zona, uno dei porti commerciali più vivaci e importanti in epoca romana, è da tempo oggetto di scavi archeologici che negli ultimi anni (a partire dal 2011) hanno disvelato un sorprendente cimitero dedicato in maniera esclusiva agli animali. La scoperta, avvenuta appena fuori le mura dell’antica cittadina, è stata pubblicata col titolo “Pet cats at the Early Roman Red Sea port of Berenike, Egypt” dall’archeologa Marta Osypińska (dipartimento di bioarcheologia dell’Accademia delle scienze della Polonia).
Il particolare cimitero, in uso fino al II secolo d.C., ospita più di 600 animali (un numero probabilmente destinato a crescere ), in maggioranza gatti, che non sono stati mummificati, come da usanza presso gli egizi, sia per gli uomini sia per i felini, ma deposti con cura e consegnati con amore al sonno eterno. I corpi degli esemplari rinvenuti presentano piccoli dettagli significativi quali collari e stoffe ornamentali, ma anche mini involucri in stoffa o ceramica. Si tratta di un’autentica sepoltura oltremodo decorosa, considerato il fatto che la quasi totalità dei corpi animali riesumati ha avuto sepoltura singola e non è stata ammucchiata in fosse comuni.
I cimiteri destinati ai soli animali erano abbastanza diffusi nell’antichità, specie nella Valle del Nilo, ma anche in altre località del globo: in Nord America, ad esempio, dove sono stati rinvenuti i resti di tre cani risalenti a 10.000 anni fa, così come in tempi recenti in Francia (in questo caso l’eccezionale sepoltura scoperta negli  Alti Pirenei, regione dell’Occitania, è stata collocata addirittura a 12000 anni fa); in Siberia, poi, nella regione attorno al lago Bajkal, è stato scoperto un cimitero di cani la cui datazione può essere ricondotta a circa 7000 anni fa.
Quanto scoperto sulle sponde egiziane del Mar Rosso, però, rappresenta un caso realmente eccezionale. In Egitto, infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, i riti funebri si concludevano (ed erano proprio fondati) con il processo di mummificazione dei cadaveri animali e non con la loro accurata sepoltura in un apposito sito, come riscontrato fuori dalle mura di Berenice. Una rarità, come sostiene Marta Osypińska, che ha quindi rimesso in dubbio l’intera e datata credenza che gli animali domestici dell’antico Egitto fossero esclusivamente mummificati dopo la morte, a seguito di grandi celebrazioni funebri.
I gatti sono notoriamente venerati nella cultura egizia. Noti con la parola onomatopeica “mau”, i primi gatti giunti in Egitto – il gatto della giungla, originario dell’Asia, e il gatto selvatico africano, originario del Medio Oriente – furono addomesticati già 10.000 anni fa, molto tempo prima rispetto ai cani, divenendo col tempo rispettati animali da compagnia e simbolo di grazia, bonarietà e fertilità. Per tale ragione, dopo il 4.000 a.C. furono associati alle virtù femminili, e i loro profili iniziarono a comparire nelle pitture parietali funebri, come riscontrato nelle tombe di Nakhtamon, Thutmose e Sennedjem.
Nel corso degli scavi, nelle fosse contenenti gli scheletri dei gatti sono stati ritrovati addirittura vari amuleti, tessuti, ceramiche e collarini, come degli autentici sarcofagi, esempio cristallino dell’affetto che i padroni avevano verso i rispettivi compagni a quattro zampe.
Molti di questi felini, hanno riferito inoltre archeologi e archeozoologi, presentano una mobilità assai limitata che però ha permesso loro di vivere vite discretamente lunghe; un fatto che ha portato a sostenere con una certa sicurezza che si trattava perlopiù di animali domestici, da compagnia, e non che fossero impiegati per scopi che concernessero il lavoro o la caccia.
Un’utilità sociale, però, con tutta probabilità i gatti la avevano, dato che Berenice era una città portuale e che, come tutti i centri di questo tipo, doveva avere dei problemi legati alla presenza dei topi che, al pari di spezie e tessuti, di certo affollavano il porto. I gatti, inoltre, tornavano utili anche nei granai, sovente infestati da insetti e topi.
A seguito di accurate analisi, poi, si è riscontrato che taluni resti presentavano fratture a riconferma della morte violenta data dagli zoccoli dei tanti cavalli che transitavano per l’area. Sono state rilevate anche tracce di cure dovute a delle lesioni; evenienza che ha confutato definitivamente l’ipotesi che si potesse trattare di sepolture intese come voto alle divinità. E invece no, quello scoperto a Berenice era un vero cimitero in cui gli animali domestici non venivano né sacrificati né ammucchiati, ma erano sepolti come esseri umani. Una sensibilità difficile da immaginare negli uomini di duemila anni fa, e che per tale ragione risulta ancora più sorprendente. Come scrisse lo storico greco Erodoto, d’altronde, gli egizi erano soliti anche radersi le sopracciglia, in segno di lutto, quando il loro felino domestico passava a miglior vita.
Non sono stati ritrovati soltanto resti di gatti, di “mau”, nell’antico cimitero per animali, però; dal sottosuolo dell’antica città portuale di Berenice sono emerse anche ossa di cani e scimmie, parimenti venerati dagli antichi popoli egizi e riconducibili rispettivamente al culto di Anubi e Babi, ambedue divinità dell’oltretomba.
Gli scavi in uno dei più antichi cimiteri per animali del mondo continuano con l’intento di scoprire di più sui rapporti tra gli abitanti dell’antica città egizia e i loro animali domestici, un tema che negli ultimi anni ha incuriosito sempre più archeologi e studiosi dell’antico Egitto.










martedì 23 marzo 2021

256. I Bambini di Llullaillaco

Essere selezionati come i più puri e sani del villaggio, prelevati dalla propria casa, nutriti del cibo migliore e, dopo mesi di preparazione, condotti in cima a una montagna, a 6700 metri di altitudine, e sacrificati agli dèi, soffocati, uccisi con un colpo alla testa o bruciati vivi.
È questa la storia dei bambini dai 6 ai 15 anni vittime della Capacocha, una cerimonia sacrificale che segnava gli avvenimenti più importanti per il popolo Inca.
Una storia che si arricchisce di nuovi dettagli, grazie alle analisi condotte dai ricercatori dell’Università di Bradford sui capelli di tre mummie rinvenute nel 1999 in prossimità della cima del vulcano Llullaillaco, in Argentina.
L' Impero Inca (Quechua : Tawantinsuyu , "Le quattro regioni"), era il più grande impero dell'America precolombiana e forse il più grande impero del mondo all'inizio del XVI secolo. L'impero nacque nell'area intorno alla città di Cusco , sulle montagne delle Ande nell'odierna Perù , nel XIII secolo. La civiltà Inca non si espanse molto geograficamente fino alla metà del XV secolo. Tuttavia, a partire dal dominio di Pachacuti nel 1438, gli Inca invasero il Sud America lungo le montagne delle Ande, conquistando le popolazioni locali lungo la strada e consolidando un enorme impero terrestre nell'arco di meno di un secolo. L'Impero Inca raggiunse la sua massima estensione geografica intorno al 1530, e poi iniziò un rapido declino culminato con la caduta di Cusco nel 1533, insieme all'esecuzione dell'imperatore Atahualpa da parte degli spagnoli conquistatori . Il sacrificio di bambini, indicato come capacocha o qhapaq hucha , era una parte importante della religione Inca ed era spesso usato per commemorare eventi importanti, come la morte di un Sapa Inca. Il sacrificio umano era anche usato come offerta agli dei in tempi di carestia e come un modo per chiedere protezione. Il sacrificio poteva avvenire solo con l'approvazione diretta dell'imperatore Inca. I bambini sono stati scelti da tutto il tentacolare impero Inca, e sono stati scelti principalmente in base alla loro "perfezione fisica". I bambini scelti per il sacrificio erano generalmente "figli e figlie di nobili e governanti locali". Furono poi portati per centinaia o migliaia di chilometri a Cusco, la capitale, dove furono oggetto di importanti rituali di purificazione. Da lì, i bambini furono mandati sulle alte vette delle montagne in tutto l'impero per essere sacrificati. Secondo la tradizionale credenza Inca, i bambini che vengono sacrificati non muoiono veramente, ma vegliano invece sulla terra dai loro trespoli in cima alle montagne, insieme ai loro antenati. Gli Inca consideravano un grande onore morire in sacrificio.
I bambini di Llullaillaco, conosciuti anche come le mummie di Llullaillaco , sono tre mummie di bambini Inca scoperte il 16 marzo 1999 da Johan Reinhard e dal suo team archeologico vicino alla cima del Llullaillaco , a 6.739 m 22.110 ft) stratovulcano al confine tra Argentina e Cile . I bambini venivano sacrificati in un rituale religioso Inca che si svolgeva intorno all'anno 1500. In questo rituale, i tre bambini venivano drogati, quindi collocati all'interno di una piccola camera a 1,5 metri (4,9 piedi) sotto terra, dove venivano lasciati morire.
Il 20 giugno 2001, la Commissione nazionale dei musei, dei monumenti e dei luoghi storici dell'Argentina ha dichiarato che i bambini di Llullaillaco sono proprietà storica nazionale dell'Argentina.
Secondo l’archeologo dell’Università di Bradford nel Regno Unito Andrew Wilson, sarebbero le mummie meglio conservate al mondo. Si tratta di tre bambini, di 6, 7 e 15 anni, sacrificati circa 500 anni fa in occasione di una tipica Capacocha.
Dei tre, la ragazzina di 15 anni, conosciuta come “la doncella de Llullaillaco”, era con ogni probabilità il soggetto più importante della cerimonia, oltre che il più consapevole di ciò che l’aspettava.
Eppure il volto rilassato e la posizione, seduta a gambe incrociate, danno l’impressione che la giovane si sia semplicemente addormentata.
La ragazza più grande si distingue anche per il modo in cui era vestita e pettinata: aveva un copricapo di piume e i capelli elaboratamente intrecciati, oltre che numerosi manufatti di seta posti su un drappo appoggiato sulle sue ginocchia.
Ciò che in realtà emerge dallo studio chimico dei suoi capelli, ancora perfettamente intrecciati, è che nei 21 mesi precedenti la sua morte, presumibilmente in coincidenza con la sua elezione al rango di vittima sacrificale, la sua dieta si era arricchita di mais e proteine animali e aveva cominciato ad assumere dosi massicce di alcool e droga, in particolare birra di mais e foglie di coca, mentre i bambini più piccoli avevano cambiato abitudini alimentari soltanto nove mesi prima del loro sacrificio.
Il consumo di queste sostanze, allo stesso tempo sedanti e inebrianti, era aumentato notevolmente all’avvicinarsi del sacrificio.
La differenza ha affascinato gli studiosi, che hanno ipotizzato che la ragazzina, più consapevole e quindi spaventata dal suo destino imminente, cercasse conforto sedandosi, o che fosse incoraggiata o costretta a farlo, in modo da renderla più facilmente manipolabile. Non è da escludere che ciò fosse legato al suo coinvolgimento in cerimonie preparatorie, dove il consumo di birra e coca era frequente.
Poi c’è “La niña del rayo”, la bambina del fulmine, di soli 6 anni. È così chiamata perchè un fulmine, dopo la morte, le colpì parte del corpo. I segni sono visibili, ma non hanno cancellato dal volto della piccola un’espressione di terrore, sottolineata dalla bocca ancora aperta, come a lanciare un grido d’aiuto, come a cercare una via di fuga dal quel terribile sacrificio.  Aveva la testa e una parte del corpo avvolti in una coperta di lana spessa, cui era sovrapposta un’altra coperta colorata.
Infine il “Niño”, di sette anni, è con il volto contro il tessuto ruvido, dai colori intatti, della coperta che lo avvolge stretto, i capelli spettinati a ciocche, raccolti in una corda che sostiene, ancora intantte, delle piume bianche.
I risultati dello studio suggeriscono che il bambino di Llullaillaco non ebbe una morte pacifica: sui suoi vestiti fu trovato sangue e vomito, segno che forse morì soffocato, mentre era strettamente avvolto in un panno, cioè legato, l’unica vittima a ricevere un trattamento apparentemente violento.
Andrew Wilson spiega perché la doncella fu trattata in modo diverso rispetto ai suoi compagni più giovani: “La doncella era forse una donna scelta per vivere in modo totalmente diverso dalla sua vita precedente, tra l’élite e sotto la cura delle sacerdotesse”.
Questo tipo di pratica sacrificale era probabilmente usata come una forma di controllo sociale: essere scelti per i riti sacrificali doveva essere visto come un grande onore, ma probabilmente era anche fonte di paura, con i genitori che non dovevano mostrare timore o rabbia se i loro figli venivano scelti. Forse ulteriori studi delle tre mummie congelate di Llullaillaco forniranno una maggiore comprensione del sacrificio rituale.
Durante un esame, è stata scoperta un'infezione batterica nei polmoni della Doncella. Il test del DNA ha indicato che le due ragazze erano sorellastre, mentre il ragazzo non era imparentato. Si ritiene che La Doncella fosse un aclla , o Vergine del Sole: era una vergine, scelta e santificata intorno ai dieci anni, per vivere con altre ragazze e donne che sarebbero diventate mogli reali, sacerdotesse e sacrifici. La pratica del sacrificio rituale nella società Inca aveva lo scopo di garantire salute, ricchi raccolti e clima favorevole.
Dal 2007 le tre mummie sono esposte al Museo de Arqueología de Alta Montaña, a Salta, in Argentina, in un territorio che faceva parte dell’impero Inca, fino a che non crollò sotto la conquista degli spagnoli, nel 1530. I discendenti del fiero popolo degli Inca vedono nella riesumazione e nell’esposizione delle mummie un affronto alle loro tradizioni religiose e culturali: il vulcano Llullaillaco è ancora una montagna sacra per loro, che non andrebbe profanata. Le tribù indigene invocano la ricollocazione dei corpi sul vulcano. 

 

  
 Postura della fanciulla mostrata attraverso le fotografie degli scavi in scala e visualizzazioni in 3D generate utilizzando le scansioni TC originali (45): (A) fotografia in situ della postura della fanciulla all'interno del santuario e (B – D) visualizzazioni 3D del corpo: (B) vista verticale corrispondente alla stessa posizione mostrata in A, (C) vista anteriore corrispondente e (D) vista laterale. I dati CT erano vincolati dai diametri dell'apertura del cavalletto (60 cm) e dal campo visivo (cerchio di scansione di 45 cm) all'interno del Tomoscan M / EG (Philips), con la parte superiore della testa, le ginocchia, la parte inferiore delle gambe, e di conseguenza mancano i piedi. 
 
 
(A) La coca all'interno della guancia della Doncella in una fotografia anteriore del viso. (B) La radiografia assiale dell'interno della bocca mostra la coca (verde) tenuta tra i denti. (C e D) Visualizzazioni tridimensionali del cranio (giallo), dei denti (arancione), della lingua (rosso) e della coca (verde). 


Tratto gastrointestinale della fanciulla: (A) visualizzazione 3D del corpo con la traccia delle tre viste assiali a destra (etichettati 1-3) e (B) visualizzazione 3D del tratto gastrointestinale e della materia fecale [1, vista assiale al livello della 10a vertebra toracica; 2, vista assiale tra la terza e la quarta vertebra lombare; 3, vista assiale tra la quarta e la quinta vertebra sacrale]. E, esofago; F, cibo residuo (vista assiale 1) / feci (vista assiale 2 e 3); PM, muscoli psoas; R, retto; S, stomaco; SI, intestino tenue.