lunedì 31 agosto 2015

233. "Vittime. Non lo siamo tutti?"

Brandon Bruce Lee (李國豪T, Lǐ GuóháoP; Oakland, 1° febbraio 1965 – Wilmington, 31 marzo 1993) nasce ad Oakland, in California, il 1° febbraio del 1965, primogenito dei due figli di Bruce Lee e di Linda Emery (nota in seguito come Cadwell, cognome ricevuto dal suo terzo marito, Bruce Cadwell). Suo padre è di origine cinese, mentre sua madre è di origini svedesi ed inglesi. Tre mesi dopo la nascita di Brandon, i Lee si trasferiscono dapprima a Los Angeles ed in séguito, nel 1971, a causa degli impegni lavorativi del padre, ad Hong Kong, all'epoca ancora una colonia britannica, dove il giovane Brandon impara il cantonese.
Nonostante un'infanzia piuttosto tranquilla, a 8 anni, Brandon deve fare i conti con la tragica morte del padre. A séguito della tragedia, assieme a sua madre e sua sorella Shannon, torna negli Stati Uniti d'America, trasferendosi a Seattle, città natale di Linda (e dove Bruce Lee viene sepolto) e poi a Los Angeles, nel sobborgo di Rolling Hills.
Brandon frequenta la scuola superiore presso la prestigiosa Chadwick School ma viene espulso per insubordinazione tre mesi prima del diploma, riuscendo poi comunque a conseguirlo. Terminati gli studi, inizia ad interessarsi alla recitazione e nel 1983 si iscrive all'Emerson College di Boston. Dopo un anno, si sposta a New York e diviene membro dell'American New Theatre, gruppo teatrale fondato dal regista, nonché suo amico, John Lee Hancock. Il giovane Brandon, che già da bambino ha iniziato a praticare le arti marziali sotto la guida del padre, continua a prendere lezioni da Dan Inosanto, uno dei più grandi allievi di Bruce Lee, studiando, tra i vari stili, il Jeet Kune Do, arte sviluppata dal suo noto genitore.
Nel 1985 Brandon fa ritorno a Los Angeles e nello stesso anno esordisce nel mondo cinematografico, ottenendo una piccola parte in "The Crime Killer" di George Pan-Andreas, nel ruolo di un gangster. Nel 1986, mentre lavora come impiegato presso la Ruddy/Morgan Production di Los Angeles, conosce Lyn Stalmaster, direttore del casting, che, dopo un provino, lo sceglie per una parte nella film TV "Kung Fu: The Movie", nei panni del personaggio di Chung Wang, figlio di Kwai Chang Caine, interpretato da David Carradine. Il film è ispirato alla serie televisiva degli anni settanta "Kung Fu" alla quale avrebbe dovuto partecipare il padre Bruce nei panni del protagonista Caine, ruolo affidato invece a Carradine.
Nello stesso anno Brandon si reca ad Hong Kong per le riprese del suo primo film da protagonista, "Legacy of Rage". Nel 1987 interpreta Johnny Caine in "Kung Fu: The Next Generation", seguito di "Kung Fu: The Movie". Brandon fa poi un'apparizione nella serie televisiva "Ohara" (1988), interpretando Kenji, figlio di un boss della Yakuza. Recita successivamente in "Laser Mission" (1990), registrato in Sudafrica nel 1988.
Nel 1991, è co-protagonista assieme a Dolph Lundgren in "Resa dei conti a Little Tokyo", film che non riscuote il successo sperato, ma che permette a Brandon di firmare un contratto con la 20th Century Fox. Nel 1992 interpreta lo studente Jake Lo in "Drago d'acciaio", in cui Brandon partecipa anche alla realizzazione delle coreografie. Per questo film si reca in tour promozionale anche a Roma, dove viene intervistato dallo sceneggiatore ed esperto di cinema kung-fu Lorenzo De Luca, già autore di alcuni libri sul padre. Parte di quell'intervista è udibile nel documentario "L'urlo di Chen terrorizza ancora l'Occidente" del 2010, realizzato dallo stesso De Luca.
Nonostante sia divenuto celebre nell'ambiente del cinema di arti marziali, Brandon è ancora insoddisfatto a livello professionale e il continuo accostamento mediatico alla figura del padre lo rende sempre più demotivato. Lui stesso definisce "stupidi" i film d'azione girati fino a quel momento e, a sua detta, ha avuto modo di farli solamente perché è il figlio di Bruce Lee. Per questo l'attore si rifiuta da quel momento di recitare in altri film del genere, sperando di trovare un ruolo in cui non conti solamente l'azione.
Nel 1993, il giovane attore viene scelto per interpretare Eric Draven nel film "Il Corvo" ("The Crow") di Alex Proyas, basato sul fumetto omonimo. Questo è l'unico film in cui finalmente l'attore non deve fare sfoggio di arti marziali e per lui è una notevole soddisfazione personale, non sopportando il fatto di essere etichettato come il "figlio di Bruce Lee" e deciso a dimostrare che lui è diverso da suo padre. "Il Corvo" lo rende famoso in tutto il globo, ma, ironia della sorte, gli costa la vita. Brandon viene ferito erroneamente da un colpo di pistola mentre sta effettuando le riprese... Ma come andarono davvero le cose?
Beh... Prendete un’arma, una 44 magnum, tanto per non scherzare. Non c’è nulla di strano a trovarla sul set, perché tutti sanno che nelle scene di un film, dove c’è un conflitto a fuoco, dove qualcuno spara, si usano pistole vere. Piuttosto, dentro, si mettono pallottole finte, quelle che in gergo si chiamano “dummies”.
Non è un problema che preoccupa la troupe, il regista, e tanto meno gli attori, perché ci pensa l’esperto d’armi pagato dalla produzione.
Solo che quel giorno, per risparmiare sulle spese, l’esperto, Jim Moyer, l’hanno mandato a casa prima dell’ultimo ciak, dove il copione dice che Funboy (interpretato da  Michael Massee) prende la mira e fa fuoco su Eric Draven, il protagonista del film.
Proprio una bella idea, quella di risparmiare sul budget, facendo a meno del tizio che controlla caricatore e carrello, cartucce e grilletto. Se ne sarebbero andati almeno cento dollari di straordinario! Il problema è che qualcuno, il giorno prima, ha maneggiato la 44, ha pure incastrato un colpo in canna senza rendersene conto. Poi ha ricaricato con le dummies, ma non preparate dal tecnico. Sono andati a comprare pallottole vere, gli hanno levato il proiettile per buttare la polvere da sparo e poi ce l’hanno rimesso. Anche qui il budget ci ha guadagnato qualche dollaro.
E’ il 31 marzo 1993, e la scena si svolge negli studi di Wilmington, Nord Carolina. Sono passate otto settimane dall’inizio della lavorazione, e mancano otto giorni prima di chiudere tutto e passare al montaggio. Il titolo del film l’hanno già deciso, “Il Corvo”, ma il suo protagonista, Brandon Lee, non ci sarà alla prima, a prendersi critiche e applausi, a godersi il meritato successo. Non ci sarà a vedere il film da lui interpretato trasformarsi in un cult mondiale.
"…Lo vidi crollare, con un lamento. Il foro del proiettile mi parve perfettamente simulato e il sangue era forse fin troppo abbondante, ma nel complesso la scena era riuscita a meraviglia e dopo aver gridato 'stop' dissi che ne avremmo girata un'altra, più che altro per sicurezza".
È quello che racconta agli investigatori Alex Projas, il regista del film. E quando la troupe, gli attori e tutti quelli che stanno sul set cominciano a muoversi, preparandosi al nuovo ciak, Brandon Lee rimane immobile, a terra.
"Pensai che avesse voglia di scherzare, anche se la cosa era piuttosto strana perché sul lavoro Brandon era di una professionalità e di una serietà estrema, ma visto che non si muoveva, mi avvicinai a lui. Notai che la macchia di sangue continuava ad allargarsi. Troppo liquido rossastro, per essere solo quello contenuto nel piccolo contenitore di plastica che Brandon avrebbe dovuto rompere simulando il ferimento e la caduta. Mi chinai, toccai con il dito quel liquido. Era tiepido e denso, come sangue...”.
Non era previsto che le cose andassero così. Michael Massee, l’attore che impersonava Funboy, doveva sparare all’addome di Eric Draven, da una distanza di circa cinque metri. Fingendo d’essere colpito, Eric sarebbe allora caduto a terra azionando un dispositivo nascosto sotto la camicia e facendo così scoppiare una piccola sacca, colma di un liquido rosso e vischioso.
Ma Brandon Lee continua a non muoversi, e allora si capisce che è successo qualcosa di grave. C’è Eliza Hutton, l’assistente di studio, che inizia a gridare. Grida perché ha paura, ma grida soprattutto perché lei, quel ragazzo, con una macchia di sangue che si allarga sulla camicia, lo deve sposare tra pochi giorni. Poi tutti cercano di soccorrerlo, di tamponare la ferita.
Arriva l’ambulanza, che parte con le sirene spiegate verso il New Hanover Regional Medical Center, poi dritto in sala operatoria. Ma non c’è nulla da fare, perché un frammento di proiettile gli ha trapassato l’addome, lacerando organi e vasi sanguigni e causando un’emorragia inarrestabile.
Sul referto dell’autopsia lo si legge chiaro: “GSW of abdomen”, dove GSW sta per "gunshot wound", ferita d’arma da fuoco.
Un dramma incomprensibile, una leggerezza inaccettabile. Soprattutto perchè Brandon, morto a soli 28 anni, era figlio della leggenda delle arti marziali, quel Bruce Lee scomparso nel 1973, che pure se n’era andato giovane, a 32 anni, con una morte che aveva lasciato molti dubbi.
Dopo una giornata di lavoro, era crollato dopo aver preso un farmaco antidolorifico, qualcosa per il mal di testa, a base di aspirina, che gli aveva procurato una reazione allergica, fino ad un edema cerebrale acuto. Un fatto certamente possibile, ma di sicuro non frequente.
E allora non erano stati in pochi a sostenere l’ipotesi dell’omicidio camuffato da incidente. Magari c’era dietro la mafia cinese, perché lo “Hei Shou Dang”, il Partito della Mano Nera, non aveva mai accettato che un orientale come Bruce  familiarizzasse in modo così palese con gli “americani”, fino a diventarne un idolo.
Il 3 aprile del 1993 Brandon Lee viene sepolto nel cimitero di Lake View, nella tomba di famiglia, accanto al padre. Sulla sua lapide, si legge:

"Brandon
Bruce Lee

Feb. 1, 1965
Mar. 31, 1993

'Because we don't know when we will die, we get to think of life as an inexhaustible well. Yet everything happens a certain number of times, and a very small number, really. How many more times will you remember a certain afternoon of your childhood, some afternoon that's so deeply a part of your being that you can't even conceive of your life without it? Perhaps four or five time more. Perhaps not even that. How many times will you watch the full moon rise? Perhaps twenty. And yet it all seems limitless.'
                                                                                                                    For Brandon and Eliza
'Ever Joined in True Love's Beauty'."

('Siccome noi non sappiamo quando moriremo, arriviamo a pensare alla vita come un inesauribile pozzo. Eppure tutto accade un certo numero di volte, ed è un numero molto piccolo, davvero. Quante altre volte ti ricorderai di un determinato pomeriggio della tua infanzia, qualche pomeriggio che è così profondamente parte del tuo essere che non riesci neanche a immaginare la tua vita senza di esso? Forse quattro o cinque volte. Forse nemmeno quelle. Quante volte guarderai il sorgere della luna piena? Forse venti. Eppure tutto sembra senza limiti. ')

“Il Corvo” l’avevano terminato utilizzando le riprese già effettuate e grazie ad un abile montaggio, con l'aggiunta di un costo di 8 milioni di dollari. In totale vennero spesi 15 milioni di dollari per creare il film.  Alla sua uscita, Il corvo ebbe un successo enorme, sia di pubblico che di critica, incassando  ben 170 milioni di dollari. Ma Brandon Lee non lo seppe mai. Lui non c'era. Un incidente? Un delitto ? Cosa sappiamo veramente della morte di Brandon Lee?
Sappiamo che Michael Massee, alias Funboy, fu totalmente scagionato. Lui non sapeva che l’arma fosse letale.
Sappiamo che la pellicola di una telecamera che riprendeva la scena dello sparo è scomparsa. Proprio quella dell’inquadratura migliore, quella che avrebbe potuto far luce sulla dinamica dei fatti.
Sappiamo che la produzione offrì alla famiglia della vittima un cospicuo risarcimento, e questo pose fine ad ogni ulteriore indagine.
Sappiamo che cento dollari di spese sul budget, alla voce “straordinari”, probabilmente sarebbero stati soldi ben spesi.









232. Un mammone d'epoca

E' impossibile ritrovarsi davanti al mausoleo Blocher nel cimitero di Forest Lawn di Buffalo senza chiedersi che storia si nasconda dietro a questa tomba così singolare. Le circostanze che hanno portato alla costruzione del mausoleo sono un intrigante mix di realtà e fiaba. E' una storia di amore e di passione, di perdita e di dolore. Al centro dell'attenzione, all'interno della tomba,  è la statua di Nelson Blocher, adagiato sul suo letto di morte, con una bibbia in mano. A guardarlo ci sono i suoi genitori, John e Elizabeth Blocher. In piedi dietro a Nelson, al di sopra della sua testa, c'è un angelo, che, secondo alcuni, ha somiglia in modo impressionante a una cameriera alle dipendenze della famiglia Blocher. Si dice che Nelson sia morto di crepacuore e sua madre Elizabeth tormentò il marito John perché realizzasse il memoriale dedicato al figlio dal cuore spezzato.
John Blocher nacque nel 1825 a Scipio, New York. A 10 anni, in séguito alla morte del padre, divenne "l'uomo di famiglia". Questo lo lasciò con una scarsa istruzione, ma le responsabilità da adulto che aveva assunto in giovane età lo fornirono di un grande spirito imprenditoriale. A 18 anni, aprì una sartoria a Buffalo, che ben presto si trasformò in un negozio di alimentari, abbigliamento, prodotti secchi, e generi vari frequentato da tutti gli abitanti di Buffalo. All'età di 20 anni, John sposò la diciannovenne Elizabeth Neff. Dalla loro unione nacque Nelson,  nel 1847.  Allo scoppio della guerra civile, John Blocher si arruolò nell'esercito dell'Unione e servì un anno nel 78° reggimento di New York, finché dovette ritirarsi a causa delle sue cattive condizioni di salute. Tornato a Buffalo, Blocher girò la guerra a suo vantaggio, producendo  scarpe e stivali per l'esercito. La sua attività calzaturiera prosperava e alcuni investimenti immobiliari particolarmente oculati trasformarono John Blocher in uno dei cittadini più ricchi di Buffalo. Così, John si stabilì con la sua famiglia in un elegante residence situato su Delaware Street, la risposta di Buffalo alla Fifth Avenue di Manhattan.
La residenza Blocher, naturalmente, necessitava del lavoro quotidiano della servitù.
Sembra che Nelson Blocher, unico figlio di John ed Elizabeth, fosse poco incline al matrimonio, anche perché privo di quelle abilità sociali necessarie a garantirsi una sposa. A 34 anni, non solo era ancora scapolo, ma viveva ancora in casa coi suoi. Nelson viaggiava frequentemente in Europa per l'acquisto di articoli in pelle per l'azienda di famiglia e per comprare opere d'arte e mobili per la casa. Ma quando tornava a Buffalo, gli venivano assegnati dei compiti piuttosto banali all'interno dell'azienda. Un giorno, nella primavera del 1881, i Blocher assunsero una nuova cameriera, la ventenne Katherine, una giovane molto bella e distaccata. Nelson ne rimase subito colpito e non fece nulla per nasconderlo. Durante la primavera e l'estate del 1881, fu molto vicino a Katherine e trascorreva parecchio tempo con lei. Alcuni dicevano che Katherine non fosse in realtà particolarmente attratta da Nelson, ma ugualmente lo incoraggiava e flirtava con lui per mantenersi il posto di lavoro. Altri invece sostenevano che i due fossero innamorati. In ogni caso, al tempo, era inappropriato che un uomo ben educato di città si confondesse con un'umile cameriera, per quanto affascinante potesse essere. I genitori di Nelson non approvavano e studiarono rapidamente un modo per porre fine a quella storia.
Nell'autunno del 1881, il padre di Nelson, John,  annunciò che c'erano degli affari da curare in Europa e che quindi Nelson doveva prepararsi a partire per un lungo viaggio. Chiaramente, l'obiettivo di John era quello di separare la coppia. Secondo una versione della storia, Nelson propose a Katherine di sposarlo alla vigilia della sua partenza per l'Europa, ma Katherine disse che aveva bisogno di tempo per pensarci. Un altra versione, invece, sostiene che Nelson ebbe appena il tempo di dirle addio. Secondo la prima versione, dopo la partenza di Nelson, Katherine ebbe dei ripensamenti sul matrimonio e colse l'occasione per partire verso luoghi sconosciuti. Ma secondo una variante più attendibile, pare che subito dopo la partenza di Nelson, i Blocher cacciarono Katherine con il severo monito di non tornare mai più. Quello che è certo, tuttavia, è che nella primavera del 1882, quando Nelson tornò dai suoi viaggi, Katherine se n'era andata e nessuno sembrava sapere dove.
John ed Elizabeth Blocher dissero al figlio che due settimane dopo che era partito per l'Europa, Katherine era sparita nel cuore della notte, lasciando dietro di sé solo la sua Bibbia. Qualunque fosse stata la ragione della partenza di Katherine, Nelson aveva il cuore spezzato. Non riusciva a credere che lei se ne fosse andata senza nemmeno lasciare un biglietto. Doveva esserci un motivo e lui era determinato a trovarla e convincerla a tornare. Per tutto il resto del 1882 la cercò, trascurando la sua attività e la sua salute. Nell'autunno del 1883, Nelson era ormai stanco e sfinito per le sue ricerche. Affranto nello spirito e con la febbre, Nelson si mise a letto. All'inizio dell'inverno del 1884, era ormai alla deriva, dentro e fuori, malato e depresso. Ben presto non riuscì più ad alzarsi dal letto. Il suo unico conforto era la Bibbia che Katherine aveva lasciato. Poi, il 24 Gennaio 1884, Nelson lasciò questo mondo, morendo con la Bibbia di Katherine stretta al petto. La madre di Nelson, Elizabeth, senza dubbio spinta da un misto di amore materno e senso di colpa, insistette affinché fosse eretto un memoriale adeguato per il  figlio. Il compito di progettare il monumento sarebbe caduto nelle mani creative di John Blocher. Al momento della morte di Nelson, John Blocher era semi-pensionato e aveva preso la scultura come un hobby.
Il monumento Blocher appartiene ad uno stile architettonico tutto suo. Potrebbe essere catalogato come una "follia" di architettura vittoriana del 19° secolo. L'architettura definisce una "follia" come "una struttura costosa, ma inutile, costruita per soddisfare il capriccio di qualche eccentrico e pensato per mostrare la sua follia ..." Presumibilmente, John Blocher non riuscì proprio a trovare un disegnatore per il monumento che potessei nterpretare correttamente la sua visione, così, senza alcuna formazione in edilizia, si caricò lui stesso della realizzazione del mausoleo.
Blocher contrattò con la ditta di John McDonnell per tagliare e assemblare i pezzi del mausoleo proveniente dalle cave di Quincy, in Massachusetts, e ingegnosamente progettò il mausoleo in modo che l'intera struttura si componesse di sole venti pietre, riducendo così al minimo i  problemi di manutenzione. Il tetto è formato da un solo pezzo, a forma di campana. Un'altra pietra, a forma di palla, venne utilizzata per la cima della volta. La campana, di 29 tonnellate, è stata tagliata da un blocco di granito di 90 tonnellate. È sostenuta da cinque pilastri. Tutti gli elementi sono stati assemblati sul posto. Ma quando la palla venne calata nel suo alloggiamento in cima alla campana, le impalcature di legno cedettero e la palla cadde, rompendo la  campana. Seguì una causa, in cui l'imprenditore affermava che la colpa era del disegno di di Blocher e che la struttura era debole. Blocher sosteneva invece che si trattava di un semplice caso di negligenza. Alla fine prevalse Blocher e venne realizzata un'altra campana. La palla venne questa volta messa al suo posto senza incidenti. Nelle aperture tra i pilastri, Blocher fece mettere quattro lastre di vetro spesse 2 centimetri e mezzo, che erano state fabbricate a Parigi,  ed un altro vetro montato con delle cerniere nascoste che funge da porta.
Per le figure all'interno del mausoleo, Blocher contattò inizialmente Paul Roche di Westerly (Rhode Island), perché venisse a Buffalo a scolpire le statue in marmo di Carrara. Blocher realizzò un modello in gesso di Nelson sdraiato su un divano e incaricò Roche di farne una replica a grandezza naturale. Roche lavorò sotto la costante supervisione di John, che però era poco soddisfatto delle abilità di intaglio di Roche. Infatti, quando Roche presentò la scultura finita, Blocher prese un'ascia la fece a pezzi. Dopo aver dato il benservito a Roche, Blocher contattò il noto scultore italiano Frank Torrey (nato in Svizzera) a Carrara, Italia. Torrey non aveva alcuna intenzione di recarsi a Buffalo, così, Blocher fornì allo scultore delle fotografie, dei modelli e le misure sue, di Nelson e di Elizabeth.
Torrey lavorò alle statue per quasi 3 anni, completandole e spedendole a Buffalo nel 1888. Il primo abitante del mausoleo fu Nelson, che aveva trascorso gli anni dopo la sua morte nella cripta d'accoglienza del cimitero. Dopo di lui, fu la volta di sua madre, Elizabeth Neff Blocher, che morì di polmonite a 78 anni, il 31 marzo 1904, e infine John Blocher, che morì di "vecchiaia" il 30 giugno 1911, all'età di 85 anni.
I Blocher trascorrono l'eternità sotto una lastra mobile nel pavimento del mausoleo. Secondo un rapporto del giornale di Buffalo, pubblicato quando il mausoleo era in costruzione, ci sono sei cripte. Questa storia ha dato origine ad alcune voci che sostengono che nella cassaforte dell'ufficio del cimitero ci sia un atto di rinuncia in cui si afferma che una delle altre cripte è riservata a Margaret Katherine Sullivan, la cameriera. Da qui la diceria romantica secondo cui,  anche se Nelson non poté stare con la sua Katherine in vita, c'è la possibilità che stia passando l'eternità con lei. Ahimè, il personale che gestisce il cimitero di Forest Lawn sostiene che ci siano solo tre cripte sotto il marmo del mausoleo dei Blocher. Il povero Nelson sta spendendo l'eternità proprio come ha speso la sua vita, con i suoi genitori. Il luogo in cui è sepolta la cameriera resta ignoto.







venerdì 28 agosto 2015

231. "The Black Dahlia"

Elizabeth Ann Short, nata a Hyde Park, nel Massachusetts, il 29 gennaio del 1924, trova la morte in maniera al tempo stesso orrenda e inesplicabile il 15 Gennaio del 1947 a Los Angeles, in California. Il suo corpo, completamente dissanguato e orribilmente sezionato, viene ritrovato in un campo e il suo ancora oggi è il caso più sconcertante del nostro secolo, uno dei casi di cronaca nera su cui si è maggiormente indagato, con grande dispendio di energie e notevolissimo impegno, senza però giungere ad alcun risultato.
L’infanzia di Elizabeth Short è piuttosto travagliata. Dal Massachusetts si trasferisce presto a Medford, dove vive con la madre e le sue quattro sorelle; il padre aveva abbandonato la famiglia ad Ottobre del 1930 e si era trasferito in California.
Elizabeth, per gli amici Beth, vive tra Medford e la Florida, sofferente di asma, presto interrompe gli studi e inizia a lavorare come cameriera, ma, come tutte le ragazze a quei tempi, i suoi sogni sono diversi. Vuole fare l'attrice. A 19 anni raggiunge il padre in California, sperando in un futuro migliore. La loro convivenza però dura poco: i due non vanno d’accordo e dopo un litigio Elizabeth lascia la casa, va a vivere da sola e trova lavoro a Camp Cooke (sempre in California) in un ufficio postale. Ora che le cose sembrano andare per il verso giusto, si trasferisce a Santa Barbara, ma proprio qui viene arrestata per ubriachezza e riconsegnata alla madre, a Medford.
Dopo molte peregrinazioni finalmente incontra l’amore, il maggiore dell’aeronautica Matthew M.Gordon si innamora di lei e la chiede in sposa, ma il loro sogno non potrà mai essere coronato, perché il maggiore perde la vita il 10 agosto del 1945 in un incidente aereo nel Sud Est asiatico.
Per Beth è una disillusione fortissima, inevitabile il ritorno alla sua vita precedente, fatta di lavori temporanei e occupazioni transitorie. A Luglio del 1946 è di nuovo in California, dove frequenta il Luogotenente Gordon Fickling. Durante il suo soggiorno a Long Beach assume il nome di Dalia Nera, probabilmente dovuto alla sua abitudine di vestirsi sempre di nero e alla sua passione per il film "la dalia azzurra".
In questo periodo della sua vita, a parte il giovanile arresto per ubriachezza, pare che Elizabeth Short abbia avuto varie avventure. Aveva la fama di essere una ragazza facile, forse anche una prostituta, ma tutto quello che è possibile appurare è il suo trasferimento ad Hollywood nell’agosto del 1946 per poter riuscire a entrare nel mondo fatato della mecca del cinema: troppo poco davvero per infangarne la moralità, visto che a quei tempi quello era un sogno comune alla maggior parte delle ragazze della sua età.
E' la sera del 7 gennaio del 1947. L' America si sta ancora faticosamente riprendendo dalle cicatrici del secondo conflitto mondiale, proprio per questo gli americani hanno solo voglia di divertirsi. La ventiduenne Elizabeth Ann Short esce dalla hall dell' Hotel Bitmore.
"Forse è in compagnia di un uomo, forse no. Il caos e l'eccitazione delle festività natalizie sono ancora troppo vicine perché la gente ci faccia caso.
E poi, ventidue anni è appena l'inizio di una vita. Cosa potrebbe mai capitare di male ad una ragazza di ventidue anni?"
La mattina del 15 gennaio 1947, un'altra donna, Betty Bersinger, passeggia tranquillamente per le strade periferiche di Los Angeles, quando qualcosa attira la sua attenzione. Un qualcosa che per il resto della sua vita continuerà a perseguitarla. Betty però non si perde d'animo: corre in cerca di un telefono pubblico e quando lo trova avverte immediatamente la polizia.
La polizia arriva abbastanza in fretta, ma prima ancora fanno in tempo ad arrivare decine e decine di curiosi in quel campo desolato nei sobborghi di Los Angeles.
Il corpo è completamente dissanguato, perfino sezionato in due parti ben separate all'altezza dell'addome, già ad una prima indagine si capisce che mancano diversi organi interni. Tuttavia il particolare, macabro ed agghiacciante al tempo stesso, è lo sfregio che attraversa tutto il volto del cadavere da un orecchio all'altro.
Il detective Harry Hansen, fa fatica a tenere indietro la folla: attorniato da curiosi, giornalisti  il corpo viene faticosamente avviato all'obitorio.
Molti tra i presenti si sentiranno male, non riusciranno a sopportare la visione della scena.
Perfino Hansen, un uomo che nel corso della sua carriera, ne ha viste di tutti i colori fa fatica a rimanere lucido.
L’autopsia appurò che era stata seviziata, torturata e mutilata mentre era ancora in vita, che il suo corpo era stato in séguito diviso a metà da qualcuno con evidenti competenze chirurgiche, e che sulla sua coscia era stata rimossa in profondità una porzione di carne e pelle che avrebbe potuto corrispondere, forse, a un tatuaggio.
Le gambe del cadavere senza nome risultano spezzate, gli organi genitali asportati così come risultano asportati molti organi interni come fegato, cuore e milza, il cranio presenta molte fratture.
L'ipotesi più probabile è che la vittima sia stata torturata da viva per un lasso di tempo che va dalle 24 alle 48 ore
Nel frattempo le foto scattate da cronisti e semplici curiosi cominciano ad apparire sui giornali, penetrano nelle case degli americani che, per la prima volta, cominceranno a vedere infranta l'illusione dell'American Dream fatto di pace e sicurezza in patria per tutti.
"Succederà ancora in futuro, ma l'America degli anni 40 sotto tanti punti di vista è ancora una nazione vergine e largamente impreparata ad affrontare il male e la barbarie."
Il cadavere viene finalmente identificato: è quello di Elizabeth Short ma per tutti, da quel momento, sarà semplicemente "The Black Dahlia". La Dalia Nera.
Harry Hansen giura a sé stesso che a qualsiasi costo troverà il colpevole.
Per la brutalità delle lesioni e per le orrende mutilazioni inferte al suo corpo, le similitudini con il caso di Jack lo Squartatore sono praticamente inevitabili, e come il caso di Jack lo Squartatore, anche quello della Dalia Nera è destinato a rimanere irrisolto.
Dopo anni di indagini, in cui vengono coinvolti sia le forze di polizia che gli uomini dell’Fbi, centinaia di investigatori, agenti e  ispettori, dopo migliaia di interrogatori e centinaia di sospetti, tra i quali alla fine vengono isolati ben ventidue nomi probabili, senza però giungere mai a una soluzione definitiva, oltre sessanta persone si ritrovano accusate formalmente ed indagate.
Presto il clamore intorno a queste indagini diventa tale che per gli inquirenti risulta del tutto impossibile far luce sul misterioso delitto che ancora oggi figura tra i casi irrisolti.
Tra i sospettati ovviamentec'è l’ultima persona con cui Elizabeth è stata vista viva, Robert Manley, poi scagionato dopo essere stato interrogato e aver verificato il suo alibi. Molta attenzione viene riscossa anche da alcune singolari coincidenze tra il profilo dell’assassino, che si suppone possa essere un chirurgo, e Walter Bayley, che abita in una casa nei dintorni della scena del delitto, di professione chirurgo e conoscente della famiglia Short, morto poi a causa di una malattia cerebrale nei primi anni del 1948.
Le indagini subiscono continue battute d’arresto e soprattutto depistaggi a causa anche dei numerosi casi di fanatici che si sono autoaccusati del delitto, come il soldato Joseph Dumais, poi risultato estraneo ai fatti perché di stanza nella sua base nel New Jersey al momento del delitto, come dimostrato da molti testimoni oculari. Anche George Hodel viene accusato del delitto Short, a causa di molestie sessuali commesse nei confronti di sua figlia quindicenne Tamara, che attirano su di lui la morbosa attenzione dell’opinione pubblica. La stessa cosa accade per Woody Guthrie, un cantante folk coinvolto nello scandalo per aver minacciato di abusi sessuali e torture una donna di cui era innamorato senza essere corrisposto, proprio in California.
Sia la figlia che il figlio del Dottor Hodel in séguito, anni dopo la sua morte e a cinquanta anni di distanza dal crimine, sfruttano indegnamente i sospetti nutriti dalla polizia nei confronti del padre scrivendo due libri scandalo basati su vaghi ricordi, fotografie e un impianto accusatorio piuttosto improbabile.
Perfino l’editore del Los Angeles Times, Norman Chandler, viene accusato di essere il mandante del delitto dallo scrittore Donald Wolfe in un altro libro scandalistico, che ancora una volta sostiene la tesi di una Elizabeth Short prostituta, incinta di Chandler, che, per evitare lo scandalo avrebbe assoldato un killer, Bugsy Siegel. Ma questa tesi, oltre a non spiegare affatto l’estrema efferatezza del delitto, contrasta anche con i dati autoptici che appurano in maniera incontrovertibile che la Short non poteva essere una prostituta, perché a causa di una malformazione vaginale, non solo non sarebbe mai potuta restare incinta, ma non avrebbe potuto nemmeno avere dei rapporti sessuali.
Nel 1993 esce un altro libro scandalo di Janice Knowlton, che asserisce di aver ricordato improvvisamente i fatti dopo una seduta ipnotica, e accusa del delitto il padre, George Knowlton, fantasticando anche lei di prostituzione, di aborti, di promiscuità sessuale e di complicità forzata nell’occultamento del cadavere. Le indagini dimostrano poi che l’unica prova a carico di George Knowlton è solo la sua permanenza nell’area di Los Angeles nello stesso periodo del crimine. Morto in un incidente nel 1962, è stato accusato dalla figlia non solo dell’omicidio della Short, ma anche di una sorta di traffico di baby prostitute, tra cui lei stessa, che a suo dire era stata venduta per la prima volta a nove anni ad una setta satanica di Pasadena e successivamente a vari esponenti del mondo dello spettacolo, tra cui anche Walt Disney. Ulteriormente screditata dalle indagini, Janice Knowlton muore suicida nel 2004 per una volontaria overdose di farmaci, non prima che venga provato il suo coinvolgimento con la figlia del dottor Hodel, l’altro celebre accusato, e non prima di aver accusato su forum e siti internet molteplici altri soggetti, presi apparentemente a caso e a turno considerati colpevoli del delitto.
Nel 1999 perfino il regista Orson Welles viene implicato nel delitto Short da Mary Pacios, ex-vicina di casa della famiglia Short di Medford, autrice del libro "Childhood shadows". La Pacios basa la sua teoria soprattutto sul temperamento molto "volatile" del regista e sulla sua ossessione di tagliare tutto a metà - ossessione che, secondo la Pacios, si può rintracciare nel set decisamente "particolare" ideato dallo stesso Welles per alcune scene (poi rimosse) di un film a cui stava lavorando al momento del delitto. Come ulteriore indizio, la Pacios cita anche gli spettacoli di magia che Welles ha tenuto durante la seconda guerra mondiale per divertire i soldati al fronte. L'autrice definisce il particolare taglio effettuato a metà del corpo come la "firma" del killer.
Welles richiede il passaporto il 24 gennaio 1947, nove giorni dopo il delitto e lo stesso giorno in cui il killer invia un misterioso pacchetto ai quotidiani di Los Angeles. Welles lascia dunque gli Stati Uniti per stare in Europa circa dieci mesi. Secondo la Pacios, alcuni testimoni da lei interrogati dicono che sia Welles che la Short frequentavano lo stesso ristorante di Los Angeles. Tuttavia, Orson Welles non è mai stato ufficialmente inserito nella lista dei sospettati.
Attualmente, Mary Pacios gestisce un sito web contenente un gran numero di informazioni e di documentazioni ufficiali sul caso della "Dalia Nera". Solo una piccola sezione del sito è tuttavia dedicata al possibile coinvolgimento di Orson Welles.
L’alto numero di sospetti e sospettati è dovuto soprattutto alla notorietà del caso anche perché alcune ipotesi, come quella dello scrittore John Gilmore, che accusa del delitto Jack Wilson, sembrano assolutamente insostenibili, scaturite solamente per vendere migliaia di copie di un libro o ottenere comunque risonanza e notorietà.
Jack Anderson Wilson (anche conosciuto come Arnold Smith) era un ladruncolo alcolizzato intervistato dallo scrittore John Gilmore per il suo libro Severed. Dopo la morte, Gilmore fa il nome di Wilson come probabile assassino, a causa della presunta conoscenza della Short. Il 17 gennaio 1982 (prima della morte di Wilson), tuttavia, Gilmore aveva fatto tutt'altra ipotesi dalle colonne del Los Angeles Herald-Examiner.
In "Severed", l'autore sostiene che il detective John St. John, incaricato al tempo del caso, era quasi arrivato ad incastrare Wilson. In realtà, il detective stesso ha rilasciato al Los Angeles Herald-Examiner una dichiarazione, in cui affermava di essere impegnato nella risoluzione di altri delitti e che avrebbe preso in considerazione le ipotesi di Gilmore quando avrebbe avuto «un po' di tempo». Successivamente, una volta resi pubblici il rapporto dell'FBI e della Procura distrettuale di Los Angeles, le affermazioni contenute nel libro di John Gilmore che accusavano Wilson dell'omicidio della "Dalia Nera" si sono rivelate decisamente infondate.
Nel suo libro, Gilmore accusa il defunto Jack Wilson anche dell'omicidio di un'altra donna, Georgette Bauerdorf. Il libro - così come molti altri testi su esso basati - ipotizza erroneamente che la Short e la Bauerdorf si conoscessero, perché avevano entrambe lavorato come cameriere nello stesso night-club. In realtà, quando la Short arriva a Los Angeles (1946), la Bauerdorf era già morta da due anni mentre il locale era chiuso da un anno.
Alcuni autori di romanzi criminali hanno speculato sui possibili collegamenti fra il delitto Short e i delitti del Macellaio di Cleveland, che operò fra il 1935 e il 1938. I primi responsabili del caso hanno effettivamente esaminato l'ipotesi, ma senza risultati (va detto che la stessa ipotesi è stata fatta per altri delitti commessi sia prima che dopo il delitto della "Dalia Nera").
Altri hanno invece ipotizzato la presenza di un collegamento fra l'omicidio di Elizabeth Short e quello di Suzanne Degnan, una bambina di sei anni trovata morta nel 1945 a Chicago, il cui corpo è stato anch'esso smembrato. L'ipotesi venne avvalorata dalla scoperta del corpo della Short in Degnan Boulevard. Tuttavia, il cosiddetto "Killer del rossetto" (al secolo William Heirens, l'autore dell'atroce delitto di Chicago) ha confessato il suo delitto ed è stato per questo arrestato prima della scoperta del cadavere della Short - anche se c'è chi ha sostenuto che Heirens fosse innocente riguardo al delitto della Degnan.
Come è logico che sia gli inquirenti cercarono anche evidenti collegamenti con delitti precedenti, come i casi del serial killer di Cleveland o quelli del Killer del Rossetto, a Chicago.
L’unica verità certa, al di là delle speculazioni sensazionalistiche, è che Elizabeth Short aveva una malformazione all’apparato vaginale che le avrebbe impedito di avere rapporti sessuali e che dunque non poteva in alcun modo essere stata una prostituta, alta appena un metro e sessantacinque, del peso di soli 54 Kg, dotata di un sorriso radioso, che brilla ancora nelle vecchie fotografie, Beth avrebbe potuto avere una rosa tatuata sulla coscia destra, rimossa chirurgicamente dall’assassino.
Elizabeth è stata sepolta il 25 gennaio, nel cimitero di  Mountain View, ad Oakland, in California, e non a Medford, la città da cui proveniva, per rispettare l'amore che aveva sempre dimostrato per la California. Il delitto resta tuttora irrisolto.










230. Un caso irrisolto

«Lizzie Borden took an axe
And gave her mother forty whacks.
When she saw what she had done
She gave her father forty-one.»

(«Lizzie Borden prese una scure
e diede a sua madre quaranta colpi.
Quando vide quel che aveva fatto
ne diede quarantuno a suo padre.»)

Lizzie Andrew Borden (Fall River, 19 luglio 1860 – Fall River, 1° giugno 1927), accusata di aver ucciso a colpi d'ascia il padre e la matrigna, fu protagonista di un celebre processo conclusosi con una sentenza di assoluzione nonostante i gravi indizi di colpevolezza.
La famiglia Borden viveva a Fall River (Massachusetts), in una modesta palazzina al 92 di Second Street, dove abitavano Andrew Borden, la sua seconda moglie Abby Borden, le figlie Emma, che all'epoca dei fatti aveva 42 anni, Lizzie, di 32, e, da qualche tempo, una domestica d'origini irlandesi, Bridget Sullivan. Il capofamiglia era un uomo molto ricco, proprietario di banche, terreni e fattorie, e, nello stesso tempo, di una parsimonia ai limiti della grettezza che lo portava per esempio a vendere personalmente le uova delle sue galline ai vicini. Una taccagneria mal sopportata soprattutto da Lizzie, che rimpiangeva ancora dopo vent'anni la morte della madre Sarah A. Morse e che non aveva approvato le seconde nozze del padre. Anche Emma non aveva buoni rapporti con la matrigna e le due sorelle si erano rassegnate a condurre una vita da zitelle rinchiuse in quella scomoda casa priva di bagno e persino dell'acqua corrente, che il padre considerava una inutile spesa. Per risparmiare, Andrew aveva poi deciso di vendere la carrozza e il cavallo, così che nella stalla ormai vuota erano rimasti solo dei piccioni, parte dei quali vennero rubati da alcuni ladruncoli. Furibondo per il furto, Andrew aveva ucciso il resto degli uccelli, particolarmente cari a Lizzie, che ne pianse a lungo la morte. Ma fu ben più irritata e amareggiata quando il padre, così avaro con la famiglia, donò una casa alla sorella della moglie, trascurando gli interessi delle figlie. Quando nella casa dei Borden, avvenne un altro più importante furto e la casa venne trovata chiusa a doppia mandata senza segni di effrazione, Andrew Borden stranamente ritirò la denuncia che aveva presentato alla polizia per la perdita di gioielli e denaro, affermando di sapere chi era il ladro e che avrebbe risolto la faccenda a modo suo.
Il 4 agosto 1892 la mattinata si svolse secondo l'ordinario. In casa erano rimaste Abby, la domestica e Lizzie. Emma era andata in vacanza da alcuni lontani parenti e Andrew e il fratello della defunta Sarah, John Morse, il quale era in visita dalle nipoti e che Lizzie amava particolarmente, erano usciti. Alle 10.40, Andrew rientrò e si dedicò alla lettura del giornale. Lizzie e la matrigna erano nelle loro stanze. Verso le ore 11.10, la domestica Sullivan sentì un lacerante grido di Lizzie che aveva trovato il padre ucciso steso sul divano.
Ci fu una grande confusione, e la polizia venne chiamata subito. Bridget, la domestica (che fu un personaggio chiave della vicenda) corse in strada a chiamare il dottor Bowen, il medico di famiglia. La Sullivan tornò nella casa con il medico di famiglia, il dottor Bowen, e una vicina, Adelaide Churchill, che ispezionando la casa per vedere se vi fossero estranei, trovò il cadavere di Abby Borden. Ambedue i corpi erano lacerati da numerosi e violenti colpi di ascia alla testa.
Emma, la sorella maggiore di Lizzie, ricevette un telegramma in cui le si riferiva la terribile notizia. Nel frattempo i vicini andavano e venivano, incuriositi e terrificati dai brutali omicidi. All'esame dei cadaveri, il dottor Bowen riscontrò delle ferite raccapriccianti: Andrew aveva un occhio tagliato in due che fuoriusciva dall'orbita, il naso era stato reciso e si potevano contare undici profonde lesioni sul lato sinistro del volto. 
Il corpo di Abby non era in condizioni migliori. Era stata trovata a faccia in giù in una pozza di sangue, con la testa quasi staccata dal collo. Il dottor Bowen riscontrò che la donna era stata colpita sulla parte posteriore del cranio più di una dozzina di volte, probabilmente con la stessa arma che era stata usata per uccidere Andrew.
Al tempo, per analizzare le ferite, le teste dei Borden vennero fatte bollire, in modo tale da rimuovere pelle, muscoli e cartilaggini e portare al vivo le ossa... e poter quindi analizzare meglio la potenza dei colpi inferti...
L'autopsia accertò che Abby Borden era morta almeno un'ora prima del marito, quando questi doveva ancora rientrare in casa; questo voleva dire che se vi fosse stato un estraneo in casa, come sosteneva Lizzie, era poco probabile che si fosse nascosto e avesse aspettato un'ora, rischiando di essere scoperto, per uccidere anche l'uomo. Le testimonianze invece attestarono che in casa erano presenti solo la Sullivan e Lizzie.
I sospetti caddero su Lizzie per diversi motivi. Il giorno prima del duplice omicidio, Abby disse al dottor Bowen che lei e Andrew erano stati avvelenati. Entrambi erano stati malissimo la notte precedente. Sfortunatamente per Lizzie, Eli Bence, un commesso dello Smith's Drugstore, informò gli investigatori che la ragazza aveva provato a comprare dell'acido prussico (cianuro di idrogeno) diverse volte nelle due settimane precedenti gli omicidi; Bence si era rifiutato di venderglielo senza una ricetta medica. Lizzie negò di aver visitato l'emporio o di aver chiesto del veleno. Inoltre c'erano dei problemi con l'attendibilità dell'alibi. Lizzie cambiava continuamente la sua versione, ricordandosi e dimenticandosi alcune informazioni e contraddicendosi.
Lizzie, inoltre, avrebbe ereditato con la sorella il patrimonio dei Borden e altri precisi indizi l'accusavano: l'arma dei delitto (anche se non fu mai provato che lo fosse), un'ascia senza manico perfettamente ripulita, compatibile con le ferite trovate sulle vittime, fu trovata nello scantinato.
Poi, un paio di giorni dopo gli omicidi, Miss Russell, un'amica delle sorelle Borden, testimoniò che Lizzie aveva bruciato un vestito nella stufa della cucina. Lizzie aveva detto che l'abito era macchiato di vernice e che non poteva più usarlo. Improbabile. Fu questa testimonianza che spinse il giudice Blaisdell ad accusare la ragazza dei delitti.
Il processo durò 14 giorni, dal 5 al 19 giugno 1893. L'unica volta che Lizzie parlò fu dopo la chiusura del dibattimento. Si limitò a dichiarare: "Sono innocente. Lascio che sia il mio avvocato a parlare per me."
L'avvocato della difesa, Robinson, fece notare che le modalità della morte delle vittime, 18 colpi d'ascia alla testa per Abby Borden e 13 per il marito, escludevano che ad uccidere potesse essere stata una donna, che non avrebbe avuto la forza necessaria per infierire su quei corpi così violentemente. Non bisognava trascurare poi che Lizzie, il cui unico svago era quello di modellare statuine di ceramica, era di una morigeratezza esemplare, faceva opere di beneficenza, partecipava ad associazioni religiose e insegnava catechismo in una scuola domenicale. Avrebbe dovuto essere un mostro, sosteneva l'avvocato, per aver compiuto quegli efferati delitti.
Alle 3 e 24 del 19 giugno la giuria si ritirò per deliberare. Alle 4 e 23 tornò col verdetto: non colpevole. Si disse che i giurati avevano impiegato solo 5 minuti per decidere, ma che avevano voluto aspettare un'ora per rispetto dell'Accusa.
Tre anni dopo il processo Lizzie tornò alla ribalta della cronaca quando fu accusata di aver rubato in una galleria d'arte di Providence due costose porcellane. La denuncia non fu però presentata dal proprietario grazie ad un accordo fatto con la donna, costretta a confessare il furto.
Un alibi inattendibile, un vestito dato alle fiamme e l'immagine stereotipata di una giovane donna dell'800: tutti questi fattori e molti altri alimentano il mistero del caso di Lizzie Borden. Teorie e libri su di esso si sprecarono. Se ci fossero state le moderne tecniche forensi all'epoca del delitto forse questo caso sarebbe stato risolto.
Nei minuti successivi alla scoperta dei corpi fu fatto poco o niente per preservare la scena del crimine. Molte persone gironzolarono per la casa, lasciando impronte digitali ovunque, perfino sui cadaveri. Se la scena del crimine fosse stata sigillata, gli agenti della scientifica moderni avrebbero cosparso la zona di polvere per la rilevazione delle impronte e quelle trovate avrebbero indicato dei sospettati. Se la scena invece non viene chiusa, la rilevazione delle impronte non ha senso.
Inoltre i corpi furono spostati prima di una completa investigazione. Se non fossero stati mossi, l'analisi degli schizzi di sangue avrebbe permesso agli investigatori di raccogliere dati corretti riguardo alle macchie, e un esperto di blood spatter analysis avrebbe potuto interpretarli per rivelare importanti informazioni quali le posizioni delle vittime, dell'assassino e degli oggetti; il tipo di arma usata e il numero esatto di colpi; il movimento e la direzione di vittime e del loro aggressore dopo l'inizio del sanguinamento. La traiettoria degli schizzi di sangue si sarebbe rivelata utile nella stima dell'angolazione tra le ferite e l'altezza dell'omicida. Per esempio è stato detto che Andrew era in piedi al momento del primo colpo e che le macchie di sangue sulla scena sarebbero risultate dall'attacco di una persona molto più alta di Lizzie.
In più con le tecniche moderne si sarebbe potuto usare il Luminol per cercare tracce di sangue non visibili a occhio nudo. E' un composto chimico che reagisce col sangue acquistando una luminescenza blu-verdastra, anche a distanza di anni. Per l'esattezza reagisce con l'emoglobina, una proteina dei globuli rossi trasportatrice di ossigeno. Il Luminol è così sensibile che può trovare sangue anche in una parte per milione. Cioè se c'è una goccia di sangue in 999.999 gocce d'acqua, avviene la reazione. Con questa sostanza che può rivelare ogni traccia di sangue, un'impronta insanguinata di scarpa, piede o dita può aiutare a capire cosa è successo. In questo caso poteva essere stata lasciata una scia di sangue, invisibile a occhio nudo, che poteva rivelare agli investigatori la via di fuga dell'assassino. Si poteva capire quale porta aveva usato per uscire, se mai era uscito.
La faccenda del vestito non è mai stata risolta. Alcuni dicono che era celeste, altri blu scuro. Se gli investigatori fossero stati in grado di identificare e acquisire come prova il vestito che Lizzie aveva indossato quel giorno, sarebbe stato possibile svolgere un ulteriore esame su di esso per trovare eventuale sangue sulla stoffa e analizzarlo. Inoltre non ci sarebbe stato l'incidente della bruciatura del vestito: con il vestito in questione nelle mani delle autorità, la bruciatura di un altro vestito non avrebbe portato all'arresto di Lizzie.
I moderni investigatori avrebbero ripreso la scena del crimine con fotografie e/o videoriprese. Sapremmo esattamente cosa indossava Lizzie e come aveva reagito alla tragedia, ogni cosa sarebbe stata registrata come prova.
La determinazione dell'ora dei decessi fu praticamente tirata a indovinare. Gli esperti dell'epoca stabilirono che Abby era morta 1-2 ore prima di Andrew, basando questa conclusione su tre fattori: 1) il sangue di Abby era coagulato e quello di Andrew no; 2) il corpo di Abby era più freddo al tatto di quello di Andrew; 3) nello stomaco di Abby c'era una grande quantità di cibo non digerito, mentre quello nello stomaco di Andrew era ben digerito. Oggi, con la moderna tecnologia forense, le prove presentate non porterebbero alla stessa conclusione. Per prima cosa il fatto che il sangue di Andrew non fosse coagulato sarebbe considerato un evento sì insolito, ma non impossibile. Quando una persona muore improvvisamente e violentemente, il sangue diventa non coagulabile poco dopo la morte. In secondo luogo, oggi i patologi non ricorrerebbero al sistema del "tocco" per determinare la temperatura corporea. Verrebbe usato un termometro interno per misurare le temperature a intervalli di tempo. Inoltre delle ricerche hanno reso noto  che la temperatura corporea in un cadavere scende molto lentamente nelle prime ore successive alla morte. Perciò la differenza delle temperature dei due corpi, oltretutto presa a mano, avrebbe oggi scarso significato. E infine le persone digeriscono il cibo in modo diverso, quindi la quantità di cibo nello stomaco delle vittime non getta luce sull'effettiva ora della morte.
In base ai moderni esami forensi, Lizzie Borden sarebbe stata ritenuta colpevole dei crimini? In un processo simulato presieduto dai giudici Rehnquist e O'Connor della Corte Suprema degli Stati Uniti, una giuria composta da studenti della facoltà di Giurisprudenza di Stanford giudicò Lizzie Borden di nuovo non colpevole. Col risultato dei molti test odierni (campioni di sangue, DNA, formazioni pilifere ecc.) forse adesso avremmo una risposta precisa.
Lizzie, una volta ritenuta innocente ed ereditato tutto insieme alla sorella, si trasferì a Maple Croft e lì visse fino alla morte. Poco tempo dopo il trasferimento a Maple Croft, la sorella di Lizzie, Emma,  se ne andò, senza mai più ritornare a Fall River e senza mai più avere contatti con lei. Forse Lizzie le confessò il delitto... forse.
Lizzie visse da paria, evitata da tutti fino all'età di 66 anni, quando morì di polmonite. Si racconta che desse splendide feste con molti attori di Hollywood, e con un'attrice in particolare, con la quale si pensa che Lizzie avesse una relazione. La ricchissima Lizzie Borden morì nel 1927, lasciando tutto il suo patrimonio a parenti, amici e alla Lega per la protezione degli animali.
Non sorprende che il lotto dei Borden sia il più visitato nel cimitero di Oak Grove. Naturalmente, Abby ed Andrew Borden non vennero sepolti il giorno del loro funerale, il 6 Agosto 1892, ma solo diversi giorni più tardi, il 17 agosto, perché i corpi dovettero attendere che fosse effettuata un'autopsia completa (11 agosto). Fu solo nel gennaio del 1895, tuttavia,  che venne eretto sul sito il maestoso monumento di granito blu e le lapidi rettangolari con le iniziali delle vittime.
Dato che Fall River era famosa per il suo granito, soprattutto il granito rosa, viene spontaneo chiedersi come mai Emma e Lizzie Borden non si siano rivolte per il monumento ad un negozio della propria città natale, ma alla Smith’s Granite Company di Westerly, a Rhode Island: beh, semplicemente perché era il fornitore più prestigioso di quei tempi, con uffici sparsi in molte grandi città americane. Providence era la filiale più vicina a Fall River. L'impresa Smith poteva vantare ordini da tutte le famiglie più ricche e più prestigiose, oltre a ricevere richieste per statue e monumenti civici in tutto il paese. Emma e Lizzie scelsero il meglio per il luogo del loro riposo eterno.
La lapide venne ordinata il 2 luglio 1894, dopo quasi due anni dalla sepoltura di Abby e Andrew Borden. La pietra, che è alta 2 metri e 75 ed è divisa in cinque segmenti distinti, fu imballata e spedita in treno il 4 gennaio 1895. Le cinque parti di cui si compone il monumento sono così suddivise: la base di pietra, la sezione che contiene l'iscrizione "A.J. Borden" in grosse lettere lucide in rilievo, il pannello in pietra in cui sono incisi i nomi e le date, il quarto blocco è quello più finemente lavorato, realizzato dal mastro intagliatore L. Galli (che venne pagato 230,79 dollari), e, infine, la quinta pietra, che conclude l'opera. Nella parte inferiore della pagina dell'ordine originale, compare anche il disegno delle 4 piccole lapidi, le cui scritte e lucidature furono realizzate da William Drew e J.F. Murphy: si tratta delle lapidi di A.J.B. (Andrew Jackson Borden), A.D.B. (Abby Borden Durfee), S.A.B. (Sarah Anthony Borden) e di Alice (la sorella che morì molto giovane). Le due lapidi di Lizzie ed Emma sono state aggiunte solo molto più tardi, e anche le scritte sul pannello del monumento principale sono state aggiunte nel 1927 o più tardi.
È interessante notare nella scheda originale dell'ordine che l'incisione del pannello dovette essere rifatta a causa di un errore. Si può osservare, infatti, che c'è una "S" aggiunta al secondo nome di Lizzie, Andrew (sulla lapide "Andrews"), e ci si chiede se questo è stato dovuto ad un ordine dato da Lizzie e da eseguire dopo la sua morte, o semplicemente ad un errore da parte dell'incisore, che può aver pensato che Andrews era un cognome e che Andrew era un secondo nome improbabile per una donna. La stessa Lizzie aveva deciso di cambiare il suo nome in Lizbeth, ma non è noto perché sia stata aggiunta una "S" al suo secondo nome, Andrew.
Non si sa esattamente quando i nomi di Emma e Lizzie, e le loro date di nascita e morte siano stati aggiunti al pannello, né se le sorelle abbiano mai realmente visto il pannello con i loro nomi: non era raro, infatti, che i nomi e le date di nascita venissero incise mentre la persona era ancora in vita e che la data di morte venisse aggiunta dopo l'avvenuto decesso.
Nessun altro è stato mai accusato degli omicidi, ma sono state elaborate diverse teorie nel corso degli anni. Nel suo romanzo "Lizzie" del 1984, l'autore Ed McBain ipotizza che Lizzie sia stata sorpresa in "atteggiamenti affettuosi" con la cameriera. McBain ha elaborato la sua teoria partendo da un episodio del 1999 della serie "Case Reopened".  McBain ipotizza che la signora Borden avesse sorpreso Lizzie e la cameriera Bridget Sullivan insieme e avesse reagito con orrore e disgusto. Lizzie aveva quindi ucciso la signora Borden con un candelabro e quando suo padre era tornato, gli aveva confessato cos'era successo, ma lui aveva reagito esattamente come la signora Borden. Lizzie, in preda alla rabbia, aveva preso un'accetta e lo aveva ucciso. Bridget aveva poi pulito l'ascia. E' vero che negli ultimi anni, Lizzie Borden venne additata come lesbica, ma sulla Sullivan non c'era alcuna speculazione del genere, tant'è vero che, dopo gli omicidi, aveva trovato un altro impiego e si era sposata con un uomo.
Un'altra teoria suggerisce che Lizzie subisse abusi sessuali da parte di suo padre: ci sono poche prove a sostegno di questa teoria, ma l'incesto non era argomento che sarebbe stato mai discusso a quei tempi e comunque i metodi per la raccolta delle prove fisiche di eventuali abusi  erano molto diversi nel 1892.
Secondo alcuni, Bridget Sullivan avrebbe confessato in punto di morte a sua sorella di aver  cambiato la propria testimonianza al processo per tutelare Lizzie.
Nel libro "Lizzie Borden: The Legend, the Truth, the Final Chapter" di Arnold Brown, invece, il responsabile del delitto sarebbe un certo William Borden, figlio illegittimo di Andrew Borden, macellaio e commerciante di carne di cavallo, che aveva provato senza successo ad estorcere del denaro al suo padre.
Si passa poi a teorie ancora più fantasiose, come quella in cui Emma Borden, essendosi costruita un alibi a Fairhaven (a circa 24 km di distanza da Fall River), arriva in segreto a Fall River,  commette gli omicidi e torna a Fairhaven per ricevere il telegramma che la informa degli omicidi.  
Secondo altri il colpevole poteva essere John Morse, zio materno di Lizzie, che raramente si era incontrato con la famiglia dopo la morte della sorella, e che era venuto a far loro visita proprio la notte prima degli omicidi. In effetti, John fu considerato dalla polizia un sospettato per un certo periodo di tempo.
L'omicidio e il processo Borden ha fatto di Lizzie una figura di culto.  Il suo personaggio è comparso in libri, film e serie televisive. La troviamo anche nei Simpsons.
Ora, la casa di periferia nella quale avvenne l'assassinio è un Bed & Breakfast. Per pernottare lì bisogna prenotare almeno un anno prima. La casa è visitabile ed è molto bella. L'atmosfera che si respira è lugubre, nonostante il sole filtri dalle numerose finestre. C'è una Tavola Ouija custodita nel salotto nel quale venne ucciso Andrew Borden. Non è antica, ma venne ritrovata dagli attuali proprietari del B&B in soffitta... Alcuni anni fa la tavola venne rubata da un ospite. Pochi mesi dopo, venne recapitata di nuovo al B&B tramite corriere e con un biglietto che diceva: 'per favore, fatela smettere'.