C’è una piccola tomba a poche decine di metri dall’ingresso del cimitero di Monza davanti alla quale si fermano in tanti. Qui non manca mai un fiore, un pupazzetto colorato, una bambolina. E fiori sempre freschi. Perché si fa così, in genere, con le tombe dei bambini. E in questa tomba c’è sepolta proprio una bambina che, anche se di anni ne sono trascorsi ormai oltre novantasette da quando è stata seppellita, avrà sempre due anni e mezzo. La storia di Genoveffa Comencini vive ormai solo nei racconti, tramandati di generazione in generazione e sempre più sfocati, trasmessi dai monzesi. Genoveffa fu vittima allora delle atroci angherie dei suoi stessi genitori, Cesare Comencini e Maria Petitti (i nomi della madre sulle cronache dell’epoca variano almeno tre volte, ma questo dovrebbe essere quello corretto). Legata col fil di ferro al letto, denutrita, lasciata al gelo, maltrattata per ucciderla. Alla fine colpita alla testa mortalmente. Una storia dolorosa che fece scalpore fra i Monzesi, che organizzarono i funerali e fecero costruire un monumento funebre per commemorare la piccola.
Ora, a distanza di tanto tempo, la vicenda è stata ricostruita, spulciando diversi giornali dell'epoca, anche pubblicati all'estero (addirittura negli Stati Uniti d'America), per scoprire cosa ne sia stato alla fine dei suoi assassini e per farsi un’idea, se mai fosse possibile, di cosa li abbia spinti a una tale ferocia.
Sul corpicino della piccola Genoveffa, morta il 2 gennaio 1924 in seguito alle atroci angherie dei suoi genitori, vengono effettuati i primi rilievi nei giorni successivi al decesso. Oltre ai segni sui polsi, dovuti probabilmente al fatto che la piccola veniva legata con del fil di ferro, emergono vaste tracce di ecchimosi sulla fronte, che si scopriranno in seguito essere la causa ultima della sua morte, come se la bimba fosse stata colpita alla testa o scaraventata con violenza a terra. Intanto, in attesa dell’esito dell’autopsia, il padre, prelevato dalla sua casa in via Carlo Alberto 26, dove era andato ad abitare con la famiglia da pochi mesi, è in galera. Mentre la madre viene lasciata per il momento a piede libero. Dopo mesi di silenzio, nei quali però l’atroce fatto, soprattutto a Monza, non viene certo dimenticato, si arriva finalmente al processo. Le indagini intanto hanno fatto un po’ più di chiarezza sui contorni dell’oscura vicenda.
Si ricostruiscono un po’ di cose. Cesare Comencini, impiegato di 29 anni, originario di Foggia, si sposa con Maria Petitti, 28 anni, di Milano, nel 1919. I due hanno un figlio, l’amatissimo Attilio. Il 4 luglio 1921 nasce però anche una bambina, a cui viene dato il nome di Genoveffa. La piccola non viene accolta bene e la madre si rifiuta di allattarla, pur avendone la possibilità, affidandola ad una balia. Raccontano le cronache dell’epoca che, dopo qualche mese, la nutrice non viene più pagata come pattuito, nonostante presenti addirittura denuncia alla polizia per richiamare i genitori ai propri doveri. E quando – non avendo ottenuto alcun risultato – riporta la piccola alla sua famiglia, la madre non la fa neppure entrare e dice alla donna di lasciarla sull’uscio. La nutrice, impietosita, la riprende allora con sé, almeno all’inizio, fino a quando la piccola viene affidata ad un cantoniere e alla sua famiglia. Nella casa della sua vera famiglia la piccola Genoveffa rientrerà così soltanto il 24 novembre 1923, quando i Comencini si trasferiscono a Monza, in via Carlo Alberto 26. Cominciano quaranta giorni di orrore per la piccola, cui non viene risparmiata nessuna violenza e nessuna sevizia, tanto da scandalizzare i vicini di casa che provano a più riprese a intercedere per lei, lasciata fra l’altro sempre seminuda tremante nonostante i rigori dell’inverno. La piccola viene addirittura legata col fil di ferro o con uno strofinaccio fra mandibola e fronte che le impedisca di piangere troppo rumorosamente. E la madre, alle rimostranze dei vicini, risponde sprezzante: «Quella là non arriverà ad essere grande, perché prima la strangolerò». Si arriva al giorno fatidico, il 31 dicembre del 1923, quando una vicina di casa la trova morente seminuda su un foglio di giornale, mentre genitori e fratellino sono prima al cinema e poi al ristorante a festeggiare. Il fratellino, lui stesso terrorizzato, alla richiesta di spiegazione su chi avesse ridotto la bimba in quelle condizioni, dice soltanto: «La mamma! La mamma!».
Il medico chiamato a visitarla si ripromette di tornare a sorpresa a vederla. Verrà invece chiamato il 2 gennaio dal padre della piccola. Troppo tardi. La bimba è morta da almeno un’ora. La madre proverà a sostenere che la piccola è rimasta soffocata da un boccone di cibo. Peccato che, al di là delle inequivocabili ferite che raccontano tutt’altro, nel suo stomaco non si troverà traccia alcuna di cibo da almeno sette ore. L’indignazione popolare assume proporzioni inimmaginabili. La gente sa come sono andate le cose, o almeno se ne è fatta un’idea. Cesare Comencini viene subito arrestato. Sua moglie lo sarà 26 giorni più tardi. Alle esequie, e poi al processo, parteciperanno centinaia di persone. Nel corso dei lunghi interrogatori, dopo aver tentato invano di negare le proprie responsabilità, i due genitori danno una propria versione dei fatti che ammette almeno parzialmente quanto effettivamente avvenuto. La madre in particolare confessa di non essere mai riuscita ad amare quella piccola «perché mi guardava con indifferenza, come un’estranea», e di aver allora deciso di ucciderla, cosa che avrebbe poi fatto - sostiene - anche con il primogenito e con se stessa. La perizia psichiatrica la giudica «amorale e costituzionalmente anaffettiva», ma nega ogni possibile deficienza mentale o neuropatia. Anche il ricovero momentaneo al manicomio del Mombello, dove era stata mandata in osservazione, esclude ogni patologia.
Dal 15 al 19 maggio del 1924 viene così fissata la discussione della causa a carico dei coniugi Cesare Comencini, 29 anni, e Maria Petitti, di un anno più giovane. Ad essi viene contestato di avere "dal 24 novembre 1923 al 2 gennaio 1924, a fine di uccidere, cagionata la morte della loro figlia Genoveffa, di anni due e mesi sei: commettendo il fatto con premeditazione, con gravi sevizie e per solo impulso di brutale malvagità, mediante mali trattamenti continuati, lesioni in varie parti del corpo prodotte da percosse, da legatura di polsi con filo di ferro ed altrimenti, ed in special modo per avere il 1° gennaio inferto alla bambina stessa lesione da corpo contundente alla regione fronto-orbitaria, che produsse emorragia endocranica, causa diretta della morte avvenuta il dì successivo". Il processo si rivelerà molto movimentato, in molti assistono alle sue fasi, i banchi del pubblico – soprattutto monzese e soprattutto femminile – risultano sempre gremiti. E il 19 maggio si arriva finalmente alla sentenza. Nell’arringa conclusiva, la pubblica accusa ricorda in particolare il dramma degli ultimi giorni a cavallo di Natale, con la piccola abbandonata dalla sua intera famiglia. Un periodo «di sofferenze e di strazio», in cui la piccola viene abbandonata sola in casa, mal nutrita e mal vestita, i polsi legati, i lividi sul volto, mentre padre, madre e fratello sono fuori e pranzo e poi addirittura al cinema.
"Condannatemi, condannatemi pure, ma fatemi andare via di qui: non voglio, non posso ascoltare più!", esclama in aula la madre come una leonessa ferita. In un processo che la vede spesso urlare e rispondere con rabbia alla accuse che le arrivano dai tanti, troppi testimoni, pescati soprattutto fra i vicini di casa che assistevano da mesi a quanto accadeva al di là delle mura della casa dove erano andati a vivere i Comencini. La richiesta dell’accusa è pesantissima: vuole che il reato sia quello di "omicidio aggravato", provato dalla lunga serie di maltrattamenti, dalla negligenza, dall’abbandono, dalla mancanza di ogni cura dopo la terribile caduta che secondo la madre avrebbe provocato la ferita alla testa mortale per Genoveffa. Il marito, che pure risulta estraneo all’ultimo episodio di violenza, anche se in aula rivendica la bontà dei propri mezzi educativi (!), viene comunque accusato di concorso nell'omicidio. Viene respinta dall’accusa anche la richiesta di concedere la seminfermità mentale alla madre, che avrebbe sopportato "il peso di una terribile ereditarietà" di cui non si capisce in realtà la natura.
L’esito del processo, un po’ a sorpresa, va però a sconfessare le richieste della pubblica accusa. La donna viene condannata infatti a 8 anni e 4 mesi di reclusione, con il condono di 4 anni della pena. Il padre se la cava con una condanna a 5 anni di reclusione, 2 dei quali condonati. Il verdetto viene accolto nel silenzio generale, sia da parte degli imputati che del pubblico attonito. Perché Cesare Comencini e sua moglie Maria Petitti rifiutarono la piccola Genoveffa e fecero di tutto per ucciderla con i loro maltrattamenti? Neppure il processo novantasette anni fa lo ha chiarito. Forse gli unici che potrebbero spiegare qualcosa sono gli stessi protagonisti di questa terribile vicenda, ma ormai sono tutti morti. Da otto anni, anche il fratellino di allora - ultimo testimone - è passato a miglior vita. E poi, quando sua sorella Genoveffa è morta, lui – Attilio, il figlio prediletto della coppia assassina - era piccolo. E non ha colpe per quanto accaduto in via Carlo Alberto 26. Era troppo piccolo, e quella sorella l’aveva vista arrivare in casa sua da pochissimi giorni, quaranta per l’esattezza, forse senza ben capire nemmeno chi fosse. Dopo quel processo e la condanna dei suoi genitori, Attilio è ovvviamente cresciuto e si è rifatto una vita, ha lavorato come rappresentante di commercio, si è sposato, ha avuto dei figli. Sua moglie, che ha confermato i fatti ma si è trincerata dietro un silenzio carico di significati, ha dichiarato: "Mio marito è morto, e in casa non si parlava molto di quella vicenda. L’ho conosciuto quando ero molto giovane, mio suocero non l’ho mai visto, ho avuto solo a che fare con la madre di mio marito ma di più non posso dire: sono passati tanti anni, lasciate perdere".
Ormai non resta che lasciar perdere, ma non lasciare che si perda anche la storia della piccola Genoveffa, per cui qualche riga vale ancora la pena spenderla.
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