domenica 18 aprile 2021

258. Genoveffa Comencini. Un fatto di cronaca.

 C’è una piccola tomba a poche decine di metri dall’ingresso del cimitero di Monza davanti alla quale si fermano in tanti. Qui non manca mai un fiore, un pupazzetto colorato, una bambolina. E fiori sempre freschi. Perché si fa così, in genere, con le tombe dei bambini. E in questa tomba c’è sepolta proprio una bambina che, anche se di anni ne sono trascorsi ormai oltre novantasette da quando è stata seppellita, avrà sempre due anni e mezzo.  La storia di Genoveffa Comencini vive ormai solo nei racconti, tramandati di generazione in generazione e sempre più sfocati, trasmessi dai monzesi. Genoveffa fu vittima allora delle atroci angherie dei suoi stessi genitori, Cesare Comencini e Maria Petitti (i nomi della madre sulle cronache dell’epoca variano almeno tre volte, ma questo dovrebbe essere quello corretto). Legata col fil di ferro al letto, denutrita, lasciata al gelo, maltrattata per ucciderla. Alla fine colpita alla testa mortalmente. Una storia dolorosa che fece scalpore fra i Monzesi, che organizzarono i funerali e fecero costruire un monumento funebre per commemorare la piccola.
Ora, a distanza di tanto tempo, la vicenda è stata ricostruita, spulciando diversi giornali dell'epoca, anche pubblicati all'estero (addirittura negli  Stati Uniti d'America), per scoprire cosa ne sia stato alla fine dei suoi assassini e per farsi un’idea, se mai fosse possibile, di cosa li abbia spinti a una tale ferocia.
Sul corpicino della piccola Genoveffa, morta il 2 gennaio 1924 in seguito alle atroci angherie dei suoi genitori, vengono effettuati i primi rilievi nei giorni successivi al decesso. Oltre ai segni sui polsi, dovuti probabilmente al fatto che la piccola veniva legata con del fil di ferro, emergono vaste tracce di ecchimosi sulla fronte, che si scopriranno in seguito essere la causa ultima della sua morte, come se la bimba fosse stata colpita alla testa o scaraventata con violenza a terra. Intanto, in attesa dell’esito dell’autopsia, il padre, prelevato dalla sua casa in via Carlo Alberto 26, dove era andato ad abitare con la famiglia da pochi mesi, è in galera. Mentre la madre viene lasciata per il momento a piede libero. Dopo mesi di silenzio, nei quali però l’atroce fatto, soprattutto a Monza, non viene certo dimenticato, si arriva finalmente al processo. Le indagini intanto hanno fatto un po’ più di chiarezza sui contorni dell’oscura vicenda.
Si ricostruiscono un po’ di cose. Cesare Comencini, impiegato di 29 anni, originario di Foggia, si sposa con Maria Petitti, 28 anni, di Milano, nel 1919. I due hanno un figlio, l’amatissimo Attilio. Il 4 luglio 1921 nasce però anche una bambina, a cui viene dato il nome di Genoveffa. La piccola non viene accolta bene e la madre si rifiuta di allattarla, pur avendone la possibilità, affidandola ad una balia. Raccontano le cronache dell’epoca che, dopo qualche mese, la nutrice non viene più pagata come pattuito, nonostante presenti addirittura denuncia alla polizia per richiamare i genitori ai propri doveri. E quando – non avendo ottenuto alcun risultato – riporta la piccola alla sua famiglia, la madre non la fa neppure entrare e dice alla donna di lasciarla sull’uscio. La nutrice, impietosita, la riprende allora con sé, almeno all’inizio, fino a quando la piccola viene affidata ad un cantoniere e alla sua famiglia. Nella casa della sua vera famiglia la piccola Genoveffa rientrerà così soltanto il 24 novembre 1923, quando i Comencini si trasferiscono a Monza, in via Carlo Alberto 26. Cominciano quaranta giorni di orrore per la piccola, cui non viene risparmiata nessuna violenza e nessuna sevizia, tanto da scandalizzare i vicini di casa che provano a più riprese a intercedere per lei, lasciata fra l’altro sempre seminuda tremante nonostante i rigori dell’inverno. La piccola viene addirittura legata col fil di ferro o con uno strofinaccio fra mandibola e fronte che le impedisca di piangere troppo rumorosamente. E la madre, alle rimostranze dei vicini, risponde sprezzante: «Quella là non arriverà ad essere grande, perché prima la strangolerò». Si arriva al giorno fatidico, il 31 dicembre del 1923, quando una vicina di casa la trova morente seminuda su un foglio di giornale, mentre genitori e fratellino sono prima al cinema e poi al ristorante a festeggiare. Il fratellino, lui stesso terrorizzato, alla richiesta di spiegazione su chi avesse ridotto la bimba in quelle condizioni, dice soltanto: «La mamma! La mamma!».
Il medico chiamato a visitarla si ripromette di tornare a sorpresa a vederla. Verrà invece chiamato il 2 gennaio dal padre della piccola. Troppo tardi. La bimba è morta da almeno un’ora. La madre proverà a sostenere che la piccola è rimasta soffocata da un boccone di cibo. Peccato che, al di là delle inequivocabili ferite che raccontano tutt’altro, nel suo stomaco non si troverà traccia alcuna di cibo da almeno sette ore. L’indignazione popolare assume proporzioni inimmaginabili. La gente sa come sono andate le cose, o almeno se ne è fatta un’idea. Cesare Comencini viene subito arrestato. Sua moglie lo sarà 26 giorni più tardi. Alle esequie, e poi al processo, parteciperanno centinaia di persone. Nel corso dei lunghi interrogatori, dopo aver tentato invano di negare le proprie responsabilità, i due genitori danno una propria versione dei fatti che ammette almeno parzialmente quanto effettivamente avvenuto. La madre in particolare confessa di non essere mai riuscita ad amare quella piccola «perché mi guardava con indifferenza, come un’estranea», e di aver allora deciso di ucciderla, cosa che avrebbe poi fatto - sostiene - anche con il primogenito e con se stessa. La perizia psichiatrica la giudica «amorale e costituzionalmente anaffettiva», ma nega ogni possibile deficienza mentale o neuropatia. Anche il ricovero momentaneo al manicomio del Mombello, dove era stata mandata in osservazione, esclude ogni patologia.
Dal 15 al 19 maggio del 1924 viene così fissata la discussione della causa a carico dei coniugi Cesare Comencini, 29 anni, e Maria Petitti, di un anno più giovane. Ad essi viene contestato di avere "dal 24 novembre 1923 al 2 gennaio 1924, a fine di uccidere, cagionata la morte della loro figlia Genoveffa, di anni due e mesi sei: commettendo il fatto con premeditazione, con gravi sevizie e per solo impulso di brutale malvagità, mediante mali trattamenti continuati, lesioni in varie parti del corpo prodotte da percosse, da legatura di polsi con filo di ferro ed altrimenti, ed in special modo per avere il 1° gennaio inferto alla bambina stessa lesione da corpo contundente alla regione fronto-orbitaria, che produsse emorragia endocranica, causa diretta della morte avvenuta il dì successivo". Il processo si rivelerà molto movimentato, in molti assistono alle sue fasi, i banchi del pubblico – soprattutto monzese e soprattutto femminile – risultano sempre gremiti. E il 19 maggio si arriva finalmente alla sentenza. Nell’arringa conclusiva, la pubblica accusa ricorda in particolare il dramma degli ultimi giorni a cavallo di Natale, con la piccola abbandonata dalla sua intera famiglia. Un periodo «di sofferenze e di strazio», in cui la piccola viene abbandonata sola in casa, mal nutrita e mal vestita, i polsi legati, i lividi sul volto, mentre padre, madre e fratello sono fuori e pranzo e poi addirittura al cinema.
"Condannatemi, condannatemi pure, ma fatemi andare via di qui: non voglio, non posso ascoltare più!", esclama in aula la madre come una leonessa ferita. In un processo che la vede spesso urlare e rispondere con rabbia alla accuse che le arrivano dai tanti, troppi testimoni, pescati soprattutto fra i vicini di casa che assistevano da mesi a quanto accadeva al di là delle mura della casa dove erano andati a vivere i Comencini. La richiesta dell’accusa è pesantissima: vuole che il reato sia quello di "omicidio aggravato", provato dalla lunga serie di maltrattamenti, dalla negligenza, dall’abbandono, dalla mancanza di ogni cura dopo la terribile caduta che secondo la madre avrebbe provocato la ferita alla testa mortale per Genoveffa. Il marito, che pure risulta estraneo all’ultimo episodio di violenza, anche se in aula rivendica la bontà dei propri mezzi educativi (!), viene comunque accusato di concorso nell'omicidio. Viene respinta dall’accusa anche la richiesta di concedere la seminfermità mentale alla madre, che avrebbe sopportato "il peso di una terribile ereditarietà" di cui non si capisce in realtà la natura.
L’esito del processo, un po’ a sorpresa, va però a sconfessare le richieste della pubblica accusa. La donna viene condannata infatti a 8 anni e 4 mesi di reclusione, con il condono di 4 anni della pena. Il padre se la cava con una condanna a 5 anni di reclusione, 2 dei quali condonati. Il verdetto viene accolto nel silenzio generale, sia da parte degli imputati che del pubblico attonito. Perché Cesare Comencini e sua moglie Maria Petitti rifiutarono la piccola Genoveffa e fecero di tutto per ucciderla con i loro maltrattamenti? Neppure il processo novantasette anni fa lo ha chiarito.  Forse gli unici che potrebbero spiegare qualcosa sono gli stessi protagonisti di questa terribile vicenda, ma ormai sono tutti morti. Da otto anni, anche il fratellino di allora - ultimo testimone - è passato a miglior vita. E poi, quando sua sorella Genoveffa è morta, lui – Attilio, il figlio prediletto della coppia assassina - era piccolo. E non ha colpe per quanto accaduto in via Carlo Alberto 26. Era troppo piccolo, e quella sorella l’aveva vista arrivare in casa sua da pochissimi giorni, quaranta per l’esattezza, forse senza ben capire nemmeno chi fosse.  Dopo quel processo e la condanna dei suoi genitori, Attilio è ovvviamente cresciuto e si è rifatto una vita, ha lavorato come rappresentante di commercio, si è sposato, ha avuto dei figli. Sua moglie, che ha confermato i fatti ma si è trincerata dietro un silenzio carico di significati, ha dichiarato: "Mio marito è morto, e in casa non si parlava molto di quella vicenda. L’ho conosciuto quando ero molto giovane, mio suocero non l’ho mai visto, ho avuto solo a che fare con la madre di mio marito ma di più non posso dire: sono passati tanti anni, lasciate perdere".
Ormai non resta che lasciar perdere, ma non lasciare che si perda anche la storia della piccola Genoveffa, per cui qualche riga vale ancora la pena spenderla.

 


257. Il cimitero di animali più antico del mondo

 Un cimitero di oltre duemila anni è stato scoperto a Berenice, antica città egizia sul Mar Rosso fondata nel 275 a.C. dal faraone Tolomeo II, in memoria della madre Berenice. La zona, uno dei porti commerciali più vivaci e importanti in epoca romana, è da tempo oggetto di scavi archeologici che negli ultimi anni (a partire dal 2011) hanno disvelato un sorprendente cimitero dedicato in maniera esclusiva agli animali. La scoperta, avvenuta appena fuori le mura dell’antica cittadina, è stata pubblicata col titolo “Pet cats at the Early Roman Red Sea port of Berenike, Egypt” dall’archeologa Marta Osypińska (dipartimento di bioarcheologia dell’Accademia delle scienze della Polonia).
Il particolare cimitero, in uso fino al II secolo d.C., ospita più di 600 animali (un numero probabilmente destinato a crescere ), in maggioranza gatti, che non sono stati mummificati, come da usanza presso gli egizi, sia per gli uomini sia per i felini, ma deposti con cura e consegnati con amore al sonno eterno. I corpi degli esemplari rinvenuti presentano piccoli dettagli significativi quali collari e stoffe ornamentali, ma anche mini involucri in stoffa o ceramica. Si tratta di un’autentica sepoltura oltremodo decorosa, considerato il fatto che la quasi totalità dei corpi animali riesumati ha avuto sepoltura singola e non è stata ammucchiata in fosse comuni.
I cimiteri destinati ai soli animali erano abbastanza diffusi nell’antichità, specie nella Valle del Nilo, ma anche in altre località del globo: in Nord America, ad esempio, dove sono stati rinvenuti i resti di tre cani risalenti a 10.000 anni fa, così come in tempi recenti in Francia (in questo caso l’eccezionale sepoltura scoperta negli  Alti Pirenei, regione dell’Occitania, è stata collocata addirittura a 12000 anni fa); in Siberia, poi, nella regione attorno al lago Bajkal, è stato scoperto un cimitero di cani la cui datazione può essere ricondotta a circa 7000 anni fa.
Quanto scoperto sulle sponde egiziane del Mar Rosso, però, rappresenta un caso realmente eccezionale. In Egitto, infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, i riti funebri si concludevano (ed erano proprio fondati) con il processo di mummificazione dei cadaveri animali e non con la loro accurata sepoltura in un apposito sito, come riscontrato fuori dalle mura di Berenice. Una rarità, come sostiene Marta Osypińska, che ha quindi rimesso in dubbio l’intera e datata credenza che gli animali domestici dell’antico Egitto fossero esclusivamente mummificati dopo la morte, a seguito di grandi celebrazioni funebri.
I gatti sono notoriamente venerati nella cultura egizia. Noti con la parola onomatopeica “mau”, i primi gatti giunti in Egitto – il gatto della giungla, originario dell’Asia, e il gatto selvatico africano, originario del Medio Oriente – furono addomesticati già 10.000 anni fa, molto tempo prima rispetto ai cani, divenendo col tempo rispettati animali da compagnia e simbolo di grazia, bonarietà e fertilità. Per tale ragione, dopo il 4.000 a.C. furono associati alle virtù femminili, e i loro profili iniziarono a comparire nelle pitture parietali funebri, come riscontrato nelle tombe di Nakhtamon, Thutmose e Sennedjem.
Nel corso degli scavi, nelle fosse contenenti gli scheletri dei gatti sono stati ritrovati addirittura vari amuleti, tessuti, ceramiche e collarini, come degli autentici sarcofagi, esempio cristallino dell’affetto che i padroni avevano verso i rispettivi compagni a quattro zampe.
Molti di questi felini, hanno riferito inoltre archeologi e archeozoologi, presentano una mobilità assai limitata che però ha permesso loro di vivere vite discretamente lunghe; un fatto che ha portato a sostenere con una certa sicurezza che si trattava perlopiù di animali domestici, da compagnia, e non che fossero impiegati per scopi che concernessero il lavoro o la caccia.
Un’utilità sociale, però, con tutta probabilità i gatti la avevano, dato che Berenice era una città portuale e che, come tutti i centri di questo tipo, doveva avere dei problemi legati alla presenza dei topi che, al pari di spezie e tessuti, di certo affollavano il porto. I gatti, inoltre, tornavano utili anche nei granai, sovente infestati da insetti e topi.
A seguito di accurate analisi, poi, si è riscontrato che taluni resti presentavano fratture a riconferma della morte violenta data dagli zoccoli dei tanti cavalli che transitavano per l’area. Sono state rilevate anche tracce di cure dovute a delle lesioni; evenienza che ha confutato definitivamente l’ipotesi che si potesse trattare di sepolture intese come voto alle divinità. E invece no, quello scoperto a Berenice era un vero cimitero in cui gli animali domestici non venivano né sacrificati né ammucchiati, ma erano sepolti come esseri umani. Una sensibilità difficile da immaginare negli uomini di duemila anni fa, e che per tale ragione risulta ancora più sorprendente. Come scrisse lo storico greco Erodoto, d’altronde, gli egizi erano soliti anche radersi le sopracciglia, in segno di lutto, quando il loro felino domestico passava a miglior vita.
Non sono stati ritrovati soltanto resti di gatti, di “mau”, nell’antico cimitero per animali, però; dal sottosuolo dell’antica città portuale di Berenice sono emerse anche ossa di cani e scimmie, parimenti venerati dagli antichi popoli egizi e riconducibili rispettivamente al culto di Anubi e Babi, ambedue divinità dell’oltretomba.
Gli scavi in uno dei più antichi cimiteri per animali del mondo continuano con l’intento di scoprire di più sui rapporti tra gli abitanti dell’antica città egizia e i loro animali domestici, un tema che negli ultimi anni ha incuriosito sempre più archeologi e studiosi dell’antico Egitto.










martedì 23 marzo 2021

256. I Bambini di Llullaillaco

Essere selezionati come i più puri e sani del villaggio, prelevati dalla propria casa, nutriti del cibo migliore e, dopo mesi di preparazione, condotti in cima a una montagna, a 6700 metri di altitudine, e sacrificati agli dèi, soffocati, uccisi con un colpo alla testa o bruciati vivi.
È questa la storia dei bambini dai 6 ai 15 anni vittime della Capacocha, una cerimonia sacrificale che segnava gli avvenimenti più importanti per il popolo Inca.
Una storia che si arricchisce di nuovi dettagli, grazie alle analisi condotte dai ricercatori dell’Università di Bradford sui capelli di tre mummie rinvenute nel 1999 in prossimità della cima del vulcano Llullaillaco, in Argentina.
L' Impero Inca (Quechua : Tawantinsuyu , "Le quattro regioni"), era il più grande impero dell'America precolombiana e forse il più grande impero del mondo all'inizio del XVI secolo. L'impero nacque nell'area intorno alla città di Cusco , sulle montagne delle Ande nell'odierna Perù , nel XIII secolo. La civiltà Inca non si espanse molto geograficamente fino alla metà del XV secolo. Tuttavia, a partire dal dominio di Pachacuti nel 1438, gli Inca invasero il Sud America lungo le montagne delle Ande, conquistando le popolazioni locali lungo la strada e consolidando un enorme impero terrestre nell'arco di meno di un secolo. L'Impero Inca raggiunse la sua massima estensione geografica intorno al 1530, e poi iniziò un rapido declino culminato con la caduta di Cusco nel 1533, insieme all'esecuzione dell'imperatore Atahualpa da parte degli spagnoli conquistatori . Il sacrificio di bambini, indicato come capacocha o qhapaq hucha , era una parte importante della religione Inca ed era spesso usato per commemorare eventi importanti, come la morte di un Sapa Inca. Il sacrificio umano era anche usato come offerta agli dei in tempi di carestia e come un modo per chiedere protezione. Il sacrificio poteva avvenire solo con l'approvazione diretta dell'imperatore Inca. I bambini sono stati scelti da tutto il tentacolare impero Inca, e sono stati scelti principalmente in base alla loro "perfezione fisica". I bambini scelti per il sacrificio erano generalmente "figli e figlie di nobili e governanti locali". Furono poi portati per centinaia o migliaia di chilometri a Cusco, la capitale, dove furono oggetto di importanti rituali di purificazione. Da lì, i bambini furono mandati sulle alte vette delle montagne in tutto l'impero per essere sacrificati. Secondo la tradizionale credenza Inca, i bambini che vengono sacrificati non muoiono veramente, ma vegliano invece sulla terra dai loro trespoli in cima alle montagne, insieme ai loro antenati. Gli Inca consideravano un grande onore morire in sacrificio.
I bambini di Llullaillaco, conosciuti anche come le mummie di Llullaillaco , sono tre mummie di bambini Inca scoperte il 16 marzo 1999 da Johan Reinhard e dal suo team archeologico vicino alla cima del Llullaillaco , a 6.739 m 22.110 ft) stratovulcano al confine tra Argentina e Cile . I bambini venivano sacrificati in un rituale religioso Inca che si svolgeva intorno all'anno 1500. In questo rituale, i tre bambini venivano drogati, quindi collocati all'interno di una piccola camera a 1,5 metri (4,9 piedi) sotto terra, dove venivano lasciati morire.
Il 20 giugno 2001, la Commissione nazionale dei musei, dei monumenti e dei luoghi storici dell'Argentina ha dichiarato che i bambini di Llullaillaco sono proprietà storica nazionale dell'Argentina.
Secondo l’archeologo dell’Università di Bradford nel Regno Unito Andrew Wilson, sarebbero le mummie meglio conservate al mondo. Si tratta di tre bambini, di 6, 7 e 15 anni, sacrificati circa 500 anni fa in occasione di una tipica Capacocha.
Dei tre, la ragazzina di 15 anni, conosciuta come “la doncella de Llullaillaco”, era con ogni probabilità il soggetto più importante della cerimonia, oltre che il più consapevole di ciò che l’aspettava.
Eppure il volto rilassato e la posizione, seduta a gambe incrociate, danno l’impressione che la giovane si sia semplicemente addormentata.
La ragazza più grande si distingue anche per il modo in cui era vestita e pettinata: aveva un copricapo di piume e i capelli elaboratamente intrecciati, oltre che numerosi manufatti di seta posti su un drappo appoggiato sulle sue ginocchia.
Ciò che in realtà emerge dallo studio chimico dei suoi capelli, ancora perfettamente intrecciati, è che nei 21 mesi precedenti la sua morte, presumibilmente in coincidenza con la sua elezione al rango di vittima sacrificale, la sua dieta si era arricchita di mais e proteine animali e aveva cominciato ad assumere dosi massicce di alcool e droga, in particolare birra di mais e foglie di coca, mentre i bambini più piccoli avevano cambiato abitudini alimentari soltanto nove mesi prima del loro sacrificio.
Il consumo di queste sostanze, allo stesso tempo sedanti e inebrianti, era aumentato notevolmente all’avvicinarsi del sacrificio.
La differenza ha affascinato gli studiosi, che hanno ipotizzato che la ragazzina, più consapevole e quindi spaventata dal suo destino imminente, cercasse conforto sedandosi, o che fosse incoraggiata o costretta a farlo, in modo da renderla più facilmente manipolabile. Non è da escludere che ciò fosse legato al suo coinvolgimento in cerimonie preparatorie, dove il consumo di birra e coca era frequente.
Poi c’è “La niña del rayo”, la bambina del fulmine, di soli 6 anni. È così chiamata perchè un fulmine, dopo la morte, le colpì parte del corpo. I segni sono visibili, ma non hanno cancellato dal volto della piccola un’espressione di terrore, sottolineata dalla bocca ancora aperta, come a lanciare un grido d’aiuto, come a cercare una via di fuga dal quel terribile sacrificio.  Aveva la testa e una parte del corpo avvolti in una coperta di lana spessa, cui era sovrapposta un’altra coperta colorata.
Infine il “Niño”, di sette anni, è con il volto contro il tessuto ruvido, dai colori intatti, della coperta che lo avvolge stretto, i capelli spettinati a ciocche, raccolti in una corda che sostiene, ancora intantte, delle piume bianche.
I risultati dello studio suggeriscono che il bambino di Llullaillaco non ebbe una morte pacifica: sui suoi vestiti fu trovato sangue e vomito, segno che forse morì soffocato, mentre era strettamente avvolto in un panno, cioè legato, l’unica vittima a ricevere un trattamento apparentemente violento.
Andrew Wilson spiega perché la doncella fu trattata in modo diverso rispetto ai suoi compagni più giovani: “La doncella era forse una donna scelta per vivere in modo totalmente diverso dalla sua vita precedente, tra l’élite e sotto la cura delle sacerdotesse”.
Questo tipo di pratica sacrificale era probabilmente usata come una forma di controllo sociale: essere scelti per i riti sacrificali doveva essere visto come un grande onore, ma probabilmente era anche fonte di paura, con i genitori che non dovevano mostrare timore o rabbia se i loro figli venivano scelti. Forse ulteriori studi delle tre mummie congelate di Llullaillaco forniranno una maggiore comprensione del sacrificio rituale.
Durante un esame, è stata scoperta un'infezione batterica nei polmoni della Doncella. Il test del DNA ha indicato che le due ragazze erano sorellastre, mentre il ragazzo non era imparentato. Si ritiene che La Doncella fosse un aclla , o Vergine del Sole: era una vergine, scelta e santificata intorno ai dieci anni, per vivere con altre ragazze e donne che sarebbero diventate mogli reali, sacerdotesse e sacrifici. La pratica del sacrificio rituale nella società Inca aveva lo scopo di garantire salute, ricchi raccolti e clima favorevole.
Dal 2007 le tre mummie sono esposte al Museo de Arqueología de Alta Montaña, a Salta, in Argentina, in un territorio che faceva parte dell’impero Inca, fino a che non crollò sotto la conquista degli spagnoli, nel 1530. I discendenti del fiero popolo degli Inca vedono nella riesumazione e nell’esposizione delle mummie un affronto alle loro tradizioni religiose e culturali: il vulcano Llullaillaco è ancora una montagna sacra per loro, che non andrebbe profanata. Le tribù indigene invocano la ricollocazione dei corpi sul vulcano. 

 

  
 Postura della fanciulla mostrata attraverso le fotografie degli scavi in scala e visualizzazioni in 3D generate utilizzando le scansioni TC originali (45): (A) fotografia in situ della postura della fanciulla all'interno del santuario e (B – D) visualizzazioni 3D del corpo: (B) vista verticale corrispondente alla stessa posizione mostrata in A, (C) vista anteriore corrispondente e (D) vista laterale. I dati CT erano vincolati dai diametri dell'apertura del cavalletto (60 cm) e dal campo visivo (cerchio di scansione di 45 cm) all'interno del Tomoscan M / EG (Philips), con la parte superiore della testa, le ginocchia, la parte inferiore delle gambe, e di conseguenza mancano i piedi. 
 
 
(A) La coca all'interno della guancia della Doncella in una fotografia anteriore del viso. (B) La radiografia assiale dell'interno della bocca mostra la coca (verde) tenuta tra i denti. (C e D) Visualizzazioni tridimensionali del cranio (giallo), dei denti (arancione), della lingua (rosso) e della coca (verde). 


Tratto gastrointestinale della fanciulla: (A) visualizzazione 3D del corpo con la traccia delle tre viste assiali a destra (etichettati 1-3) e (B) visualizzazione 3D del tratto gastrointestinale e della materia fecale [1, vista assiale al livello della 10a vertebra toracica; 2, vista assiale tra la terza e la quarta vertebra lombare; 3, vista assiale tra la quarta e la quinta vertebra sacrale]. E, esofago; F, cibo residuo (vista assiale 1) / feci (vista assiale 2 e 3); PM, muscoli psoas; R, retto; S, stomaco; SI, intestino tenue.















255. Due donne sconosciute

Isola della Scala è una cittadina in provincia di Verona. Il territorio, un tempo disseminato di paludi, ora è tutto una risaia, e le strade che portano qui sono tutte affiancate da campi e canali.
Proprio in uno di questi, a lato della Statale che arriva dal capoluogo, venne rinvenuto una mattina di agosto del 1972 il corpo decapitato di una donna. Sul corpo non c'era nulla di utile per l'identificazione, nessun documento.
«Secondo quanto risulta», spiega l’ufficiale di Stato civile del Comune, Silvia Bonfante, «in un canale posto in località Pisona, l’area posta a lato della Statale che arriva in paese da Verona, è stata trovata nei primi giorni dell’agosto del 1972 una donna senza testa». Proprio il fatto che non se ne potessero vedere i tratti del viso ha fatto sì che quel cadavere sia rimasto ufficialmente quello di «donna sconosciuta».
«Nei documenti non c’è altro», afferma Silvia Bonfante. La quale, peraltro, precisa che non è nemmeno certa la data del seppellimento. «Dai registri del cimitero non risulta nulla», spiega, «anche se, andando a verificare le altre date, abbiamo potuto desumere che l’inumazione è avvenuta fra il 26 settembre ed il 12 ottobre successivi al ritrovamento».
Il cadavere venne evidentemente lasciato in obitorio per diverse settimane, nella speranza che qualcuno rivendicasse la scomparsa di una donna o che le indagini portassero a qualche sbocco. Così però non fu, né la testa venne mai ritrovata.
Alla fine dunque, la donna sconosciuta venne sepolta, a spese del Comune, nel cimitero di Isola. Sulla sua tomba una semplice iscrizione, incisa su una lastra di recupero:
"Donna sconosciuta, 1972".
Alcuni anni dopo il giornale della città, L'Arena, pubblica un articolo dal titolo sensazionale: "Ha un nome la decapitata di Isola."
«Secondo indiscrezioni attendibili, la donna si chiamava Gabriella Sorak in Marcon e, all’epoca della morte, aveva 47 anni», spiegava il quotidiano. «La Sorak è effettivamente sparita da casa, a Sanremo, dove viveva con un falegname e un’amica deforme della quale si prendeva cura da anni, nell’estate del ’72», continuava l’articolo. Pur raccontando che «il riconoscimento (del cadavere, ndr), fatto dalla figlia della Sorak, ha destato parecchie perplessità», allora sembrava che «le probabilità che il cadavere senza testa trovato ad Isola della Scala non sia quello della Sorak non superano il venti per cento».
Un’affermazione a cui, però, fanno da contraltare le perplessità degli inquirenti, principalmente legate al fatto che Gabriella Sorak risultava essere espatriata nel 1972, l’anno della sua presunta morte, in Portogallo. Sul destino di questa donna non si hanno notizie.
Questo margine di dubbio non è comunque sufficiente a mettere la parola "fine" alla misteriosa vicenda.
Ma il cimitero di Isola custodisce anche un altro segreto.
Il 25 settembre 1979, 7 anni dopo il ritrovamento della donna decapitata, poco distante dal primo rinvenimento, venne infatti scoperto il cadavere di un'altra donna senza nome, questa volta, però, completamente integro.
Ciononostante, per assurdo, su questo fatto si sa ancora meno. Non si sa nemmeno se si sia trattato di omicidio, di un incidente o di un suicidio.
L'unica cosa che resta di lei è il documento per l'autorizzazione alla sepoltura nel camposanto di Isola, fatalità poco distante dalla tomba della prima donna, firmato dall'allora Pretore.
Anche per lei venne incisa una scritta e, anzi, venne pietosamente posta sulla sua sepoltura una croce inutilizzata.
Per tutti questi anni il cimitero ha custodito silenziosamente il segreto dell'identità e della storia di queste due donne.
E a questo  si aggiunge un altro curioso dettaglio: qualcuno ha continuato per molti anni, fino a non poco tempo fa, a portare fiori sempre freschi su entrambe le tombe. I custodi del cimitero non sono mai riusciti a individuare l'autore di questo gesto.
Si pensa possa essere qualcuno che conosce l'identità delle due donne (magari proprio l'assassino stesso, si mormora talvolta tra i paesani), oppure semplicemente si tratta di un gentile visitatore qualunque  che, mosso a pietà per la loro triste sorte, si è preso l'impegno di non lasciare totalmente all'oblio il passaggio della loro esistenza su questa Terra.